68 - Confronto (II)

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Claire


Una compressione ritmica e regolare sullo sterno mi spinse gradualmente a cadere oltre la nebbia del sonno.

Strizzai gli occhi, c'era una luce bassa e aranciata che filtrava dalle persiane abbassate. Persiane, che non riconobbi subito.

Ero nel letto di Christian e lui era steso accanto a me con il busto schiacciato contro il mio fianco. Quando mi resi conto di dove fossi, mi mancò il fiato.

Se n'era andato, la sera prima... o forse era solo qualche ora? Beh, se n'era andato e mi aveva lasciata nel suo salotto senza voltarsi indietro. Lo avevo aspettato per un po' sul divano, ma poi dovevo essermi addormentata mentre l'attesa diventava nervosismo e il nervosismo si trasformava in angoscia.

Non credevo che sarebbe tornato. Non credevo che sarebbe tornato e soprattutto non credevo che mi avrebbe portata nel suo letto con lui. 

Lo guardai, scostandogli una ciocca di capelli chiari dalla fronte. Christian aveva un braccio infilato sotto il cuscino, l'altro che mi teneva per la vita come se temesse che potessi andarmene. Lo facevamo entrambi troppo spesso: mollavamo tutto e lasciavamo l'altro pieno di dubbi e insicurezze. Perché non riuscivamo mai a uscire dai cliché che ci eravamo creati?

Continuai a rifletterci, mentre il mio sguardo scendeva sulla pelle nuda e compatta del torace per scivolare poi sui pantaloncini della tuta che lo avevo costretto a indossare la sera del galà, quando da sbronzo aveva deciso di dormire in jeans e camicia. Sembrava passata una vita e invece non erano passate neppure ventiquattr'ore.

Ventiquattr'ore insieme e, se da una parte avevamo fatto dei passi da gigante, dall'altra avevamo detto cose che non ci saremmo più potuti rimangiare. La sera prima Christian aveva detto che forse avrei fatto meglio a stargli lontano. Il solo pensiero di tornare a quella vita mi mozzò il fiato e il bisogno vibrante di sentirlo ancora vicino, ancora mio, mi spinse a raggomitolarmi contro di lui. Lo aveva detto, sì, ma era tornato ancora una volta.

Anche quello lo facevamo troppo spesso: ferirci, prima di tornare sui nostri passi. Quanto ancora avremmo potuto fare così, però? Per quante volte ancora uno di noi si sarebbe potuto allontanare, prima che l'altro decidesse di andarsene definitivamente?

L'idea di una vita senza di lui mi riempiva il petto di un'angoscia che non sapevo descrivere, mi attanagliava la gola, mi riempiva di una paura cieca che non faceva altro che paralizzarmi. Avevo imparato la lezione: sapevo essere indipendente, sapevo prendermi cura di me stessa, o almeno ci provavo. Ma quando era Christian a farlo, quando potevo starmene lì tra le sue braccia e svegliarmi con lui, quel peso che sentivo si allentava fino a scomparire.

Solo che... Come avrei fatto a farglielo capire? Come avrei potuto spiegargli che non potevamo buttare via di nuovo quello che avevamo?

Continuai a osservarlo, ripetendomi quella domanda senza risposta e imprimendo ogni dettaglio nella mia testa. Le curve che disegnavano il suo volto perfetto le conoscevo a memoria, come una melodia suonata un milione di volte: dalle ciocche mosse color del grano che si allungavano verso la linea dritta del naso alla geometria tagliente della sua mascella. Non volevo che fosse l'ultima volta che mi sarei svegliata vicino a lui, ma con Christian non ero mai sicura di nulla.

Scesi sui pettorali compatti, tipici di chi si allenava con costanza, e ripensai a quanto poco sapevo della sua carriera nel football. Mi chiesi se i suoi problemi a mantenere il controllo fossero spariti o se ancora, a volte, facesse fatica a non dar corda al suo temperamento impulsivo.

Guardai il suo ginocchio, infine, quello che sapevo gli avessero rotto nel tentativo di allontanarlo dal football, proprio dopo che avevo deciso di andare a New York. Mi ero chiesta spesso se fossi stata io la causa di quell'evento. Io, che mi ero rifiutata di sottostare a ciò che mi chiedeva Dylan. Io, che ero uscita dalla loro orbita. 

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