La lupa bruna [1]

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La foresta era buia e spettrale, silenziosa e fredda abbastanza da far accapponare la pelle. Sembrava il set di un film dell'orrore, il momento della calma che precede la tempesta. Nemmeno un suono, neppure un minimo sussulto: nulla si muoveva attorno a Joy, la cui testa pulsava freneticamente. Aveva la schiena dolorante, poggiata al suolo su un letto scomodo di foglie e rami. Tentò di rialzarsi con molta calma, badando a non fare sforzi esagerati. Quando riuscì a mettersi seduta scattò subito in piedi trattenendo un urlo e stringendo con forza le mani a pugno. Riconobbe il luogo dell'incidente e respirò con affanno.

Indossava solo delle bende macchiate di rosso e maleodoranti e dei pantaloncini logori che non bastavano a tenerla al caldo contro il vento che tirava nel bosco fitto. Si osservò attentamente, tastandosi la faccia. Nessun bruciore al corpo, neppure una ferita. Le cicatrici erano scomparse e le unghie delle sue mani erano persino truccate da un morbido smalto nero e opaco. Nulla aveva più senso. Era nella foresta, vestita di stracci insanguinati, ma stava bene. Si chiese cosa le stesse accadendo, perché sentiva la testa girare e pesarle sul collo sottile.

Un fruscio di foglie catturò la sua attenzione, facendole credere che fossero state scostate dal vento ma, quando trasferì lo sguardo su di loro, rimase di stucco. Grandi occhi rossi la osservavano nel buio. Erano quelli della famelica belva che l'aveva aggredita. Jocelyn identificò il suo sguardo irato trapassarle il corpo. Il gigantesco lupo sembrava ancor più furioso dell'ultima volta in cui si erano incontrati, molto di più di quando Joy aveva sognato tutti loro sull'autobus. Tentò di fuggire, questa volta decisa a non perdere l'equilibrio, ma con velocità impressionante il mostro le saltò addosso. Chiuse di nuovo i denti sulla sua gola. Lo fece ancora, e ancora, e ancora...

E mentre Jocelyn urlava e invocava disperatamente aiuto, l'oscurità calò su di lei.

Una voce la chiamò insistentemente. Lei non voleva ascoltarla. Aveva sonno, sentiva il bisogno di riposare ancora. 

"Devi svegliarti!", le impose, tentando di strapparla dal suo sogno comatoso.

Joy lottò contro se stessa. Una parte di lei desiderava solo dormire, l'altra combatteva per aggrapparsi a qualsiasi appiglio che la facesse risvegliare. "Jocelyn, devi risvegliarti!", sentì ancora, così pian piano altri rumori accompagnarono la voce sconosciuta. Erano rumori strani, che lei non conosceva. Provò ad attribuirli a quelli di una macchina elettronica, che teneva il ritmo del suo battito cardiaco. Lo strano "bip!" che sentiva cominciò a ripetersi più velocemente, in maniera sempre regolare e si stabilizzò del tutto quando lei riaprì gli occhi.

La luce era flebile e accecante allo stesso tempo. La vista della ragazza impiegò ancora qualche secondo ad abituarsi all'illuminazione, finché le doppie figure di ogni cosa al di sopra di lei non si fusero con le immagini reali divenendo nitide e immobili. Quando anche il soffitto smise di girare, poté muovere appena le dita. Quelle di una mano in particolare risposero all'impulso del cervello un po' in ritardo rispetto all'usuale. Riuscì a muovere il collo dolorante, appoggiato scomodamente su un singolo cuscino incastrato fra la sua nuca e lo schienale a sbarre di un lettino singolo bianco e freddo, dalle coperte poco pesanti. Le pareti erano totalmente bianche, interrotte solo da lineature grigiastre che ne scandivano i contorni e disegnavano motivi geometrici su ognuno dei quattro muri. L'unica fonte di colore era un tavolinetto azzurro pallido dall'altro lato della stanza, sul quale v'era un vassoio incolore pieno di cibo dall'aspetto strano: una purea gialla, una bottiglietta d'acqua del tutto piena, della frutta un po' scadente.

Da quanto tempo si trovavano lì? Da quanto Joy non mangiava? Sentì l'acquolina in bocca al solo pensiero di azzannare qualcosa di sostanzioso, non importava cosa purché fosse commestibile. Mosse ancora le dita, riprendendosi poco a poco e sentendo i morsi della fame stringerle lo stomaco. Notò di essere dimagrita di molto, anzi, troppo: le braccia erano perlacee e mostravano le vene verdastre a fior di pelle, alle quali erano attaccate flebo, punti di sutura o bende. I fianchi si erano stretti notevolmente e le uniche curve che mostravano erano quelle delle ossa del bacino, idem per il petto e le costole.

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