La lupa bruna [3]

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La sera che giunse fu stranamente fredda. Un vento da brividi soffiava tra le strade. Le fronde degli alberi nei giardini dondolavano pacchiane come a ritmo di una ninna nanna, frusciando ad intervalli irregolari. La luna piena nel cielo era immobile e maestosa ed illuminava serenamente tutto il paesino. In lontananza, il mare era abbastanza calmo e rifletteva la luce bianca mentre l'acqua colpiva la costa con delicatezza, sciabordando. Le stelle erano ben visibili nel cielo grazie ai paesani che avevano rinunciato ad accendere lampadari o altri lumi.

La stanza di Joy aveva una finestra abbastanza ampia da ospitare morbidi raggi lunari che le permettevano di leggere il romanzo regalatole da Britney in tutta serenità. Portava come al solito un paio di auricolari nelle orecchie e veniva cullata da un sottofondo di musica classica, ottima per rilassarsi durante la lettura. Le sue compagne l'avevano spessa criticata per questi suoi gusti, ma lei non si era fatta corrompere dai loro commenti sprezzanti. Di certo non aveva intenzione di pensare a loro che, subito dopo la sua dimissione dall'ospedale, non avevano neppure badato a domandarle se stesse davvero bene o meno. Anche a causa del loro comportamento, Joy aveva cambiato idea e si era ritirata dagli studi, decidendo di assentarsi durante tutta la settimana. Ne aveva discusso con i suoi genitori, che non poterono trovare il coraggio di negarle qualche giorno di armonia e solitudine. Serena aveva persino pranzato con loro, seppur mantenendosi molto più fredda e distante del solito. Joy sapeva che entrambe avevano bisogno di tempo, utile a capire cosa stesse accadendo di preciso e a dimenticare la spiacevole gita in montagna e ciò che ne era conseguito. Purtroppo si trattava di un'ardua impresa. I ricordi dei cattivi commenti che le avevano rivolto i suoi coetanei quella mattina si fecero strada nei suoi pensieri, assediandola.

Immersa nei suoi pensieri crudeli, Joy si rivoltò sul letto, chiudendo il libro e segnandone accuratamente l'ultima pagina letta con un pezzo di carta decorato da lei stessa il giorno precedente prima di poggiarlo sul comodino adiacente alla parete. Sbuffò con forza, infastidita dalle coperte calde sotto la sua pelle e dalla scarsa aria che filtrava dalla finestra, alla quale non giungeva il sottile vento estivo. Si sollevò dal materasso e si mise a sedere prima di guardare il balconcino della sua camera. Osservò le stelle lontane e ricordò di un gioco che spesso tentava da piccola: contare quante piccole lucine brillanti vi fossero nel firmamento di fronte ai suoi occhi. Il gioco terminava sempre per pigrizia, o perché ne perdeva il conto. Con nostalgia, si sollevò e spinse le ante della porta-finestra, arrivando nel piccolo balcone che si affacciava su una piccola strada buia. La ospitò una sedia di plastica bianca, rimasta lì per molto tempo, da una notte in cui Serena, invitata a dormire a casa sua, russò talmente forte da costringerla a trascorrere le restanti ore di sonno lì, nel balcone. L'orologio all'interno della camera scoccò le ventidue di sera e Joy poggiò i gomiti sulla balconata, chiudendo gli occhi. Cercò di fare suo l'odore dell'aria pulita di paese e lo respirò a pieno, godendoselo come se fosse l'ultimo giorno della sua vita. Era una sensazione piacevole e confortante: la beatitudine di rimanere da soli a volte era la cosa migliore che potesse provare. Il dono del silenzio, che mai l'avrebbe giudicata.

Sollevò lentamente le palpebre prima di rischiare di addormentarsi. Tornò ad ammirare le stelle e poi la luna. Era completamente tonda e bianca, a dir poco incantevole. I crateri grigi che la segnavano erano sfumati da un alone candido e vago. Jocelyn non aveva mai visto una luna del genere, o semplicemente non si era mai interessata a guardarla in quel modo. Non sapeva cosa avesse di particolare rispetto alle altre lune piene e pallide che aveva osservato in passato, ma si sentì attratta da essa come dal bosco in cui aveva finito per perdersi. Quel ricordo la scosse e riaffiorarono alla sua mente la sequenza di immagini della foresta che scorreva veloce attorno a lei, il respiro pesante che testimoniava la sua folle corsa, l'odore del sangue e persino il suo sapore. Si alzò di scatto, con un movimento abbastanza forte e fulmineo da far capovolgere la sedia bianca. Joy non pensava di aver impiegato tanta forza in un semplice movimento. Si aggrappò per qualche secondo alla ringhiera e tornò a guardare in alto. Sentì le retine bruciare e la pelle formicolare mentre la luna compieva tremolii immaginari e lampeggiava ingannando la sua mente. Qualcosa non andava. Gambe e braccia presero a rabbrividire, ma né per il freddo né per la paura. Neanche un secondo dopo un forte dolore al naso la fece piegare in due, come se avesse ricevuto un pugno in pieno viso. Joy non trattenne un piccolo urlo e si tastò la faccia. Dalle narici scrosciò qualche goccia di sangue che inquietò la ragazza.

La voce del padre di Jocelyn risuonò nelle scale. «Joy? Va tutto bene?», domandò. Non aveva alzato la voce, eppure Joy si strinse le mani alle orecchie come se le avesse appena urlato contro. In men che non si dica percepì ogni minimo rumore della casa, persino quello dei passi dei vicini, che abitavano oltre la strada e camminavano in pantofole.

«I-io...», provò a dire, fuori di sé. L'unica parola pronunciata emerse dalla sua gola in un rantolo furioso, che non rispecchiava il suo carattere. «A-aiuto!», provò a dire poi, ma riuscì solo a sillabare poche vocali. Prima di cadere a terra tornò in camera e si abbandonò ad una caduta sul letto. Non riusciva più a reggersi su due piedi, così si contrasse e strinse le ginocchia al petto, in preda a strani spasmi. Udì le sue ossa scricchiolare pericolosamente e il dolore che le provocarono mentre si spostavano fu lancinante. Tuttavia, la ragazza non riuscì a strillare.

«Joy, tesoro? Potresti rispondere a tuo padre?», intervenne sua madre, con tono più preoccupato.

La ragazza non fu in grado di replicare alla sua richiesta. Percepì i capelli rizzarsi sulla testa mentre venivano tirati con forza e le orecchie sollevarsi ad allungarsi. Non riusciva a capire cosa stesse accadendo.

La voce della madre tornò a farsi sentire forte e chiara. «Magari ha fatto un incubo. A quest'ora può darsi che dorma», immaginò. A Joy non piacque la situazione. Era sicura che la donna avesse sussurrato quella frase.

Con le sue ultime forze allungò una mano verso il cuscino e lo tirò a sé, affondando in esso la faccia e soffocando un terribile urlo. Le stava accadendo qualcosa di terribilmente spaventoso. Le ossa delle sue spalle si retrassero quasi a toccarsi e un senso di calore l'avvolse mentre i suoi capelli crescevano, e crescevano, e crescevano...

La maglietta si strappò con fruscio, stessa cosa accadde ai suoi pantaloni, il cui bottone esplose e schizzò via. Le unghie si allungarono notevolmente e il suo corpo s'ingrandì. Ben presto il letto non bastò a contenerla e lei fu costretta a strisciare sul pavimento prima di distruggere le assi che lo sostenevano.

Tutto terminò un attimo dopo. Rannicchiata su se stessa in una posizione decisamente scomoda, attese immobile di sopportare i seguenti dolori, ma non avvertì nulla. Si sentiva esattamente come prima, solo decisamente più forte e più pesante. Quando riaprì gli occhi qualcosa occupava parte della sua vista: un lungo muso bruno e un naso nero e tondo come quello di un grosso cane. Provò ad alzarsi in piedi, senza risultato. Si diresse verso la porta, camminando su mani e ginocchia. Quando abbassò lo sguardo, però, intravide nel buio due paia di zampe, grosse e rossicce. Provò a sussultare ma udì un grave guaito. Sentì la presenza di un arto aggiuntivo muoversi dietro di lei. Una coda. Tutto ciò era assurdo. Pregò di essersi sbagliata, di stare semplicemente male o di avere le allucinazioni. Capitò di fronte al grande specchio appeso all'armadio e sentì il suo respiro farsi più pesante.

Non poteva essere reale.

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