Chiusa In Una Gabbia Di Cristallo

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Gli occhi cercano un disperato bisogno di vedere un po' di luce. Sento suoni e voci intorno a me, un po' come quando Kazuma mi aveva rapita, facendomi diventare una cavia per i suoi sadici esperimenti.
Solo che questa volta, è diverso. Qualcuno tiene ben salda la mia mano, a volte sento piccoli cerchi tracciarne il dorso, questo mi fa sentire in qualche modo meno sola.
Ma improvvisamente il distacco di quella presenza, di quel legame che sentivo, sembra avermi lasciata.

"Sveglia Jilian." sento dire ad un tratto. Non capisco più se sia realtà o finzione ciò che le mie orecchie sentono. Ormai quella linea sottile e delicata che li divideva, sembra essersi dissolta da qualche parte. Complemente sparita.

"Così. Brava!" la delicatezza con la quale questa voce angelica mi parla, mi fa pensare che sia finita in paradiso e che il tocco di prima, forse, era quello del mio papà. Forse questa è l'ipotesi più giusta che potessi fare, fino a quando di colpo una luce fredda di un neon mi colpisce in pieno.

«La nostra bella addormentata si è svegliata!» le immagini sono leggermente sfocate. Di solito questa cosa, accade sempre quando guardo per troppo tempo il sole e dopo, cambiando visuale, inizio a non vedere bene e a lacrimare.
Ridacchio mentalmente, perché in gran parte, sembra che la mia esistenza sia stata sempre così. Sfocata.
Perché tutto ciò che amavo, lo avevo visto sempre in modo diverso.
Un po' come quando cambi  posizione nel vedere anche il più minuscolo e marginale dettaglio.
Da piccola amavo sedere sull'erbetta fresca del parco; papà mi portava ogni domenica e mamma urlava perché dovevo mettere prima una tovaglietta sotto e poi sedermi. Ma io facevo finta di non ascoltare, perché già mi ero persa nell'ammirare il cielo e tutto ciò che mi delimitava con il resto del mondo. Mi perdevo nel guardare con occhi sognanti gli uccellini che svolazzavano di qua e di là, le coccinelle e le lumachine che percorrevano quel meraviglioso prato verde e di come le farfalle volavano con la loro semplicità.  Era perfetto perfino il colore del laghetto che ospitava al suo interno delle bellissime carpe.
Un giorno, come solito fare, andammo al Seattle Japanese Garden, il cielo ugioso non prometteva nulla di buono, infatti pochissimi minuti dopo, alcune goccioline bagnavano il mio viso. Tutto si trasformò in un vero e proprio temporale, così, quel giorno dovetti spostarmi sotto la tettoia spiovente, veniva usata come passerella, per condurci tra un sentiero e l'altro del parco o come in quell'occasione per ripararsi dalla pioggia. E bastò quel piccolissimo cambiamento per vedere tutto distorto. Sotto i miei piedi non toccavo più l'erbetta verde, solo piccoli sassolini dal colore morto. Non vedevo più il cielo, o, per meglio dire, non lo vedevo come prima, ma solo una piccolissima fetta. Stesso discorso per quelle bellissime carpe dal colore vivace. Ed ecco come piccole prospettive fanno cambiare la bellezza di qualsiasi cosa. Io che adoravo quel luogo, quel giorno nonostante fosse il solito posto di sempre, lo odiai. Semplicemente perché la mia prospettiva era stata cambiata. Ed ecco che poi accorsero le lacrime a far divenire quel luogo sfocato. Quelle famose lacrime che ad oggi, mi accompagnano come fedeli amiche.

«Va tutto bene.» una ragazza con il camice bianco, mi spara una luce negli occhi. Più fastidiosa di quella del neon attaccato al soffitto.

«Come sta?» subentra una voce roca. Giro il capo e scopro la figura di Evan poggiato alla porta che penso conduca al bagno. Ha il viso stanco e qualche macchia di sangue a sbattermi in faccia ciò che è successo.

«Sta bene per fotuna. L'intervento è andato bene. Sono lieta di conoscere la figlia...» ma Evan interrompe la giovane donna con la sua voce fortemente piena di negazione.

«Conosceva mio padre?» chiedo, fregandomi di lui e ammonendolo con uno sguardo freddo. In risposta alza gli occhi al cielo.

«Certo!! È stato il mentore di tutti qua dentro.» qua dentro?? Corruccio la fronte, perché non capisco in che posto mi trovo. Guardo la donna dai capelli rame, lentiggini a contornarle il volto delicato e gli occhi a ricordare l'autunno. Con movenze aggraziate, parla del mio papà e della sua famosa clinica. La J.J.M CORPORATION.
Sbatto più volte gli occhi, non ci credo, e quasi mi viene da piangere, ma al minimo movimento gemo dal dolore per via della ferita.

Non il Classico Bad BoyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora