e i g h t e e n

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T R I S T A N

E così l'ho persa.

L'ho capito subito, non appena i suoi occhi, davanti ai miei, hanno iniziato a cambiare, nascondendosi dietro ad una coltre di paura.

Forse ho sbagliato, lo so, ma non potevo più fingere, non quando il tempo è ormai agli sgoccioli.

Mia madre diceva che quando incontri la tua compagna lo capisci subito che è lei, che l'hai finalmente trovata, ma per me non è stato così.

Quando l'ho vista per la prima volta, in lacrime e nascosta in un angolo della stanza, ho provato solo pena per lei: una povera ragazza che non sapeva di vivere una vita che non è mai stata sua.

Forse, ripensandoci, avrei dovuto capirlo subito: io non provo mai pena per nessuno.

Era carina, ma niente di che: ho visto molte cacciatrici e lupe molto più avvenenti di lei, ma Lucy ha sempre avuto qualcosa di diverso, qualcosa di nascosto nel suo viso capace di confondere la mia mente.

E ho sprecato così tanto tempo nel cercare di capire che cosa fosse quel particolare nascosto, cercandolo nel modo in cui sorride, o in come alza gli occhi quando faccio qualcosa di stupido oppure nel modo in cui dice il mio nome.

Ho cercato, cercato, ma non ho mai trovato nulla, almeno fino a quando non l'ho vista sul fondo di quel lago.

In un primo momento riuscivo solo a pensare che dovevo salvarla, e solo dopo è arrivata la paura, quella di perderla.

Accarezzavo il suo volto, stringevo la sua mano gelida, e non riuscivo a non pensare a quanto avrei voluto risentire la sua voce, anche come un insulto nei miei confronti, perché questo voleva dire che stava bene e non ad un passo dalla morte.

E l'ho vegliata ogni singolo giorno, seguendo i suoi lenti progressi, sempre al suo fianco, sperando, in questo modo, di farle sentire il mio calore, così da accelerare la sua guarigione.

In quei giorni ho imparato a memoria ogni singolo centimetro del suo volto, ormai potrei riconoscerlo ad occhi chiusi, e l'ho fatto solo perché volevo cercare quella dannata cosa nascosta che mi spingeva verso di lei, a pensarla.

E poi, una notte, mentre io ero ancora al suo fianco mezzo intontito dal sonno, lei ha parlato.

Non ha detto molto: stava ancora dormendo, forse sognava, ma ha parlato.

Una sola parola, un nome: il mio.

Ha stretto la mia mano, quasi come se sapesse che io fossi lì, come se volesse proprio me in quel momento.

Lei ha detto il mio nome, lei voleva me: e da quel momento qualcosa è scoppiato nel mio petto, ed ogni cosa non è più stata uguale.

Io non ero più lo stesso: la mia vera natura era venuta a galla e non potevo più nascondermi, non con lei che dormiva ad un metro dal mio letto.

Ed è in quel momento che tutto è peggiorato, perché sapevo che, per quanto lei mostrasse un piccolo interesse per me, ciò che provavo io andava ben oltre, qualcosa che un umano non può nemmeno lontanamente capire.

E' come se il mondo non contasse più nulla, se non per il fatto che c'è lei a viverci sopra.

L'azzurro del cielo non è più quello a cui fai riferimento, perché vedi solo quello dei suoi occhi.

I suoi capelli non sono color del grano, ma è il grano che si aspira a loro, molto più belli, di cui io ormai riconosco il profumo fra i mille del bosco.

E finalmente ho capito ciò che non riconoscevo nel suo viso, quella cosa che tanto cercavo.

Ero io, il vero me, che vedevo riflesso in lei: l'unica capace di portarmi alla luce.

Warm heartDove le storie prendono vita. Scoprilo ora