4. L'INTERROGATORIO

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Vennero a prenderla la mattina seguente. Nonostante la tensione e la paura, Erya era riuscita a dormire un po', la testa appoggiata alle ginocchia, e aveva così recuperato abbastanza forze da sentirsi più pronta e decisa rispetto alla sera precedente. Guardò negli occhi le guardie che avevano aperto la porta della cella e rimase immobile, in attesa.

«Vieni» ordinò una delle due, in tono sbrigativo.

Risalirono la scalinata e percorsero un lungo corridoio sul quale si affacciavano numerose stanze. Al termine di questo spiccava una porta più ampia delle altre, ornata da ricchi fregi dorati. Al centro, intarsiato, vi era lo stemma di Surna, quello ricamato anche nelle uniformi delle guardie.

I due uomini spalancarono la porta e spinsero Erya oltre la soglia, all'interno di un ampio salone. La luce, che penetrava da dieci finestre alte e strette poste appena sotto il soffitto, la costrinse a chiudere gli occhi, abituati al buio della cella, per qualche istante. Quando li riaprì mise a fuoco le torreggianti colonne che riprendevano i fregi della porta e che reggevano un soffitto a cupola, anch'esso interamente intarsiato.

Nel complesso, la sala era disadorna: due tavoli di legno pregiato, uno sulla destra e uno sulla sinistra, costituivano l'unico mobilio. Una decina di fiaccole elaborate, al momento spente, segnalavano un corridoio centrale che percorreva la sala in tutta la sua lunghezza e, a terra, a seguire il percorso tracciato dalle fiaccole, un tappeto rosso collegava la porta dalla quale era entrata Erya a un trono rialzato, scolpito nel marmo.

Seduto sul trono stava Malrok, che la fissava con curiosità. Indossava uno sgargiante abito vermiglio dai riflessi dorati e reggeva un lungo scettro d'oro. Il volto era abbronzato e, notò Erya avvicinandosi, reso insolito da un naso lungo e sottile e da due occhi neri piccoli e ravvicinati, che gli conferivano il singolare aspetto di un uccello.

Ai lati del trono, su comode seggiole in legno decorato, erano seduti due uomini, la coppia più strana che Erya avesse mai visto. Quello a destra era così basso che le gambe non toccavano terra e rimanevano penzoloni; sarebbe potuto risultare simpatico, con quei capelli neri e ricci, arruffati, se non fosse stato per i gelidi occhi di un azzurro sbiadito, quasi bianco, con i quali la fissava ostile, e per la bocca, pressoché priva di labbra, contorta in una smorfia che esprimeva profondo disgusto.

A sinistra era seduto un uomo completamente calvo, la cui lucida testa rifletteva i raggi del sole che entravano dalla finestra più vicina. Gli occhi guardavano in direzione di Erya, ma la ragazza aveva la strana impressione che lo sguardo le passasse attraverso e che l'uomo non stesse in realtà osservando lei ma qualcosa alle sue spalle, qualcosa che nessun altro sarebbe riuscito a vedere. Teneva le mani congiunte, i palmi che si toccavano e le dita molto separate le une dalle altre, in una posizione che a Erya non parve affatto naturale. Al contrario del suo collega di destra, sovrastava in altezza anche il sovrintendente, che pure era seduto sul trono sopraelevato.

Malrok le fece segno di avvicinarsi e di fermarsi a pochi passi da loro. Quindi la interrogò: «Tu sei Erya, figlia di Glen?»

Annuì.

«Sai perché sei qui?»

«No»

«Abbiamo sentito molto parlare di te»

Non rispose.

«Ci sono altre persone come te nel tuo villaggio?»

Finse di non capire e scosse piano la testa con aria stupita.

«Si raccontano delle cose interessanti sul tuo conto. Su quello che sai fare»

«Lavorare nei campi? Oh, lo facciamo tutti, a Kilea!»

Il Cuore di DjinoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora