61. IL CAMPO NERO

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Poco dopo il sorgere del sole, i tre compagni uscirono per visitare Kork. I Feark che incontravano sul loro cammino dovevano essere già al corrente della loro presenza, perché non vi era stupore nei loro sguardi, ma un sincero interesse, soprattutto nei confronti di Erya e Idemar.

Lasciato il labirinto di strade di Kork alle loro spalle, avanzarono oltre il centro abitato per visitare la zona adibita alle coltivazioni. Non ebbero difficoltà a trovare gli estesi campi coltivati con le piante più varie e le serre nelle quali venivano curate le più delicate. Ma non fu la cosa più interessante che videro: accanto a un campo ricoperto da quella che sembrava erba rosso vivo, vi era un ampio spazio lastricato con pietre nere e opache, dal taglio quadrato e regolare, di grande effetto. Lì vicino, una costruzione le cui pareti erano ricoperte di mosaico nero.

I due ragazzi, sorpresi e affascinati, si avvicinarono allo spiazzo per osservarlo, mentre Aredel si disse più interessato all'erba rossa, e si allontanò da loro.

Le pietre nere formavano un pavimento regolare e livellato; erano state disposte con evidente cura e precisione.

Prima che Idemar riuscisse a posare un piede sopra quello strano spiazzo, la porta della casa mosaicata si spalancò, e ne emerse un Feark che subito si diresse verso di loro ad ampie falcate.

Era più muscoloso dei Feark che avevano conosciuto fino a quel momento, ma il suo passo aveva una leggerezza che contrastava con il fisico ben piantato e l'andatura militaresca.

Si fermò solo quando fu di fronte ai due ragazzi, e puntò su di loro gli occhi verde smeraldo punteggiati da pagliuzze rosse. I capelli dovevano essere stati castani, ma il tempo li stava ingrigendo. Sulla guancia destra spiccava una lunga cicatrice che donava al suo sguardo profondo una severità che altrimenti non avrebbe avuto.

«Così le voci erano vere, dopotutto» disse, dopo averli scrutato con attenzione. «Due Uomini sono giunti fino a qui»

Idemar ed Erya non risposero.

«Si dice che le cose, lassù, non vadano granché bene, e sono certo che voi me lo potete confermare: siete stati costretti a impugnare le armi diverse volte, in questi ultimi mesi»

Si voltò verso Erya e disse: «Un arco» quindi si rivolse a Idemar. «Anche tu hai utilizzato l'arco, ma anche una spada e una picca, o un bastone»

Osservò per qualche istante gli sguardi stupefatti dei ragazzi, e sul volto gli spuntò un sorriso che fece scomparire la cicatrice

«Perché vi meravigliate? Sono state le vostre mani e le vostre braccia, a comunicarmelo»

Erya abbassò lo sguardo ai palmi, come se si aspettasse di scoprirci qualcosa di strano, ma non erano diversi dal solito, e i segni violacei degli ematomi provocati dalla corda dell'arco durante i primi allenamenti erano scomparsi dal suo avambraccio; tornò a guardare lo sconosciuto.

«Non ci troverai nulla» rise. «Solo chi vive tra le armi e le conosce profondamente riesce a leggerne i segni»

«Credevo che i Feark vivessero in pace» fece Idemar.

«Pace!» il tono del Feark si fece tagliante. «Una parola senza valore, perché usata con mille accezioni differenti. Cos'è davvero la pace? È assenza di guerra? Una vita senza contrasti? Una tregua con il nemico? Andare d'accordo col vicino di casa? Per me è utopia: non può esistere, non nel suo significato più estremo, non finché nell'animo di ogni vivente ci sarà il bisogno di affermarsi a scapito dell'altro» scosse la testa. «Ma, per rispondere alla tua domanda, sì, i Feark non partecipano a una battaglia da moltissimi anni. Questo però non implica che non conoscano le armi! Io vivo da sempre in mezzo alle armi, e potrei affrontare un avversario con quella che più desidera, alla pari. Io sono Norken, e questo che vedete è il Campo Nero, dove nascono tutte le squadre addette alla perlustrazione»

Il Cuore di DjinoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora