Capitolo 4

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MICAH

- Avete trenta minuti di tempo per analizzare questa poesia. - Pierce spalancò la porta e la chiuse oltre le sue spalle. Mancavano due minuti alle nove e la classe era presente, al completo, nel più assoluto silenzio. I fogli sulla cattedra, insieme alla valigia di pelle di Pierce e un cumulo enorme di volumi di letteratura. - Lei, li consegni ai suoi compagni. - disse, rivolgendosi ad un ragazzo che sedeva al primo banco. Gli occhi gelidi di Pierce erano fissi su un punto indefinito dietro di noi, le sue mani lunghe e dalle dita affusolate reggevano il mento lievemente aguzzo. Quell'uomo spaventoso era il padre di Liv. Questa scoperta avrebbe dovuto raggelarmi il sangue nelle vene, l'avrebbe fatto se si fosse trattato di qualsiasi altro essere umano presente in quella scuola, ma io non ero una persona comune, inutile dirlo. L'idea di uscire con sua figlia mi solleticava in modo incredibile. Peccato che quella mattina non l'avessi vista neppure di sfuggita e che Ezra mi avesse spinto in classe con dieci minuti di anticipo. Il mondo sembrava complottare contro me e, alla faccia del mio entusiasmo già sotto le scarpe, i fogli raggiunsero anche il mio banco. Dannazione, erano trenta domande a risposta aperta. Faceva sul serio?
- E non dite che non l'avete studiata, ragazzi. -
Nessuno sembrava capace di dir niente comunque.
- Effettivamente non l'avete studiata, ma chi non conosce "In Memoriam" del grande Tennyson? Forse il poeta laureato più influente e rappresentativo di tutta la letteratura vittoriana. -
Non riuscii a trattenermi. - Non credo sia giusto sostenere un esame su qualcosa che non abbiamo studiato. - trenta teste che si voltavano dalla mia parte. Che palle, ragazzi.
- Perché signor Larssen, se si fosse trattato di una qualunque altra opera, lei vuol farmi credere che sarebbe stato capace di rispondere a queste domande? -
Touché. - Forse non io, ma qualcuno qui dentro avrà pur studiato qualcosa in vita sua. - dissi, dedicando un grosso sorriso ai miei compagni che di rimando continuavano a fissarmi come se fossi un pazzo appena uscito dal manicomio.
- Purtroppo è così e non si discute. - mi disse Pierce, perforandomi con quei suoi occhi azzurri. Ecco dove li avevo già visti, sul bel volto di Liv! Non per il colore, certo, quelli di Liv erano verdi, ma la forma e la profondità dello sguardo erano identici.
- Le regole sono regole certo, ma se fossero un po' più giuste non sarebbe necessario discutere. -
- La giustizia la trova fuori da questa porta, signor Larssen. - Pierce mi indicò la porta, per la seconda volta nel giro di quattro giorni.
- Lei non sa che mi fa soltanto un favore. - biascicai, mentre prendevo il mio zaino e avanzavo verso l'uscita.
- E fino ad un secondo fa lei non sapeva di aver ottenuto un intero trimestre di punizioni pomeridiane, da scontare in biblioteca. Oltre a dei seri corsi di recupero della mia materia, ovviamente. Cosa si aspettava venendo qui, signor Larssen? Fama? Gloria? Un diploma assicurato, forse? -
- Si figuri, non ho grandi aspettative. - commentai, mentre sentivo la rabbia fluire nel mio corpo. Era proprio un gran bastardo quel Pierce. Stava quasi per vincere il primato di odio, spodestando quel figlio di puttana di Jack.
- Perché questa è la dura realtà. In questa classe, con me, si suda per ottenere qualcosa. -
- E si sostengono esami su opere mai studiate prima. - aggiunsi, facendo fremere ancora una volta i miei compagni. Pierce, invece, non si scomponeva nel modo più assoluto.
- Ha detto bene. Comincia a capire. - poi tirò fuori una clessidra e la girò. - Trenta minuti da adesso. Con lei, signor Larssen, ci si vede alle tre del pomeriggio, in biblioteca. -
Contaci, bastardo. Uscii dalla classe con i nervi a fior di pelle. Ancora una volta lo stronzo aveva vinto la battaglia di quel giorno. La guerra, però, era ancora tutta da vedere.

A forza di venir buttato fuori, stavo iniziando a conoscere quel luogo meglio delle mie tasche, così andai sulla scalinata principale, mi sedetti con le spalle contro il muro e alzai il volume del mio iPod. Ragazzi che sarebbero dovuti entrare in seconda mi sfilavano davanti agli occhi, qualcuno mi lanciava uno sguardo pieno di interesse, altri mi salutavano con un cenno del capo, la maggior parte semplicemente passava oltre, troppo indaffarata e pensierosa per badare allo strambo ragazzo newyorkese perennemente nei casini.
Ma non lei, non Liv. Improvvisamente mi fu di fronte, i capelli lunghi che ondeggiavano al vento e l'espressione confusa. Vidi le sue labbra muoversi e mi tolsi frettolosamente le cuffie dalle orecchie.
- Non dirmelo. -
- Pensavo non mi avresti mai più rivolto la parola dopo la terribile gaffe di sabato. - dissi tutto d'un fiato. Era così bella e ... sola, notai, dopo una seconda occhiata. Senza quel mastino del suo ragazzo o quella rompipalle di Blake, nella sfortuna doveva essere la mia giornata fortunata quella!
- Mio padre è un bastardo e lo sappiamo tutti. E poi non mi sognerei mai di ignorare il ragazzo più misterioso della Woodland Hills... - sorrise, mentre i suoi occhi bellissimi venivano lasciati liberi di risplendere al sole dopo aver sollevato gli occhiali. - Allora? E' stato lui a fare di te un barbone stravaccato sulle scale? -
Fu il mio turno di sorridere. - E' così evidente? Ti dispiacerebbe così tanto rimanere senza un genitore, Liv? - le chiesi, senza riflettere. Un'ombra scura, quasi impercettibile, le offuscò lo sguardo.
- Rimarrei sola, Micah ... -
Ancora una volta aveva detto una stronzata, la fissai, incapace di aggiungere altro e mortificato fino al midollo. - S-senti, mi dispiace. -
Liv scosse il capo e sorrise. - Non potevi saperlo, fa nulla. Adesso dovrei entrare ... -
- Faccio proprio schifo. - la seguii lungo le scale, - non faccio altro che straparlare. Ti capirei se mi odiassi, insomma ... qualsiasi cosa dica finisce per essere completamente fuori luogo ... -
- Ti ho detto che non fa nulla. Anzi, sei molto schietto e mi parli come se ... fossi una persona normale. -
Ancora una volta mi lasciò di sasso. - Cosa vuoi dire? -
Liv fece un sorrisetto triste mentre avanzava verso il suo armadietto. - Sai, sono l'unica figlia del terribile professor Pierce, non sono molte le persone qui che ... -
- Non ti libererai mai di me, Liv. - non la lasciai finire, i miei occhi incontrarono i suoi, mezzi sgranati dalla sorpresa. - Tuo padre non mi spaventa neanche un po'. -
- Lo so. - rimase un attimo in silenzio, poi sollevò la testa e mi guardò di nuovo. - Sei proprio una strana persona, Micah. -
Era una critica? Un complimento? Forse soltanto un'affermazione senza alcun senso. Non riuscii a capire.
- Dovresti temerlo però ... sai, lui ha una certa influenza e ... -
- Eccoti finalmente! -
Il muscolosissimo quanto indesiderato capitano della squadra di football del liceo apparve alle mie spalle. James Keegan, il ragazzo da eliminare.
- Ehi, sono appena arrivata. -
- Pensavo mi chiamassi ... - lo stronzetto si gettò sulla bocca di Liv, prima di venir scostato lievemente.
- Mio padre ... - sussurrò lei, pianissimo.
- Non è qui. -
- Non voglio rischiare. -
Tossii forte. - Oh, a quanto pare ti sei rimesso in men che non si dica. - dissi con un sorriso convincente sul volto, mentre salutavo la mia ignara preda.
- Ehi, che casino l'altra sera, eh? Come butta? Più tardi ci sarà la prima partita della stagione ... -
Come butta? Faceva sul serio?
- Sono in punizione con suo padre, mi sa che passo stavolta. - dissi mentre fissavo Liv che adesso rideva sotto i baffi.
- Dobbiamo andare. - disse quella, seguita dal suo ragazzo-zerbino. - Ci si vede in giro, Micah e ... buona fortuna! -
Ed era così che fuggiva via ... allontanata dal suo ragazzo e dai suoi doveri morali. Oh, sì che sarebbe stata mia ... prima o poi sarei stato io il tipo accanto a lei. E l'avrei baciata ovunque. Avevo già lanciato la mia sfida a Pierce, ma quello sì che sarebbe stato un bel modo di vederlo annegare. Colpirlo nei suoi affetti più cari mi sembrava un'ottima strategia, ed io l'avrei eseguita con esemplare freddezza e precisione.
In quell'istante ricevetti una sorta di illuminazione divina. Tutti i miei buoni propositi, se mai ne avessi avuti, andarono al diavolo. Non avevo mai pensato al futuro, non avevo mai desiderato un accidente mi ritrovai a pensare, ero semplicemente una pedina malriuscita nella mani di Jack.
Jack mi aveva dato un cognome nuovo, regole di vita che avrebbero dovuto fare di me un comune e mediocre essere umano, il suo corrispettivo in poche parole, ma non erano altro che stupidi sogni di gloria quelli. Io ero ciò che ero, e non potevo, né volevo farci qualcosa. Non era il suo sangue che scorreva nella mie vene, rimanevo pur sempre il fedele figlio di William Blaine. E se tutti gli altri, in famiglia, sembravano aver dimenticato il passato e rabbrividire al suo nome... io di certo non ero nessuno di loro.
Fino a quel momento avevo sempre camminato sul filo del rasoio e a New York avevo toccato il fondo, ma adesso sarei uscito totalmente dalle righe. Avevo un'eredità da portare avanti e avrei attinto dal mio burrascoso passato. Sarei stato il bastardo psicopatico che aveva sfregiato il compagno in terzo superiore, il delinquente che nessun padre vorrebbe veder uscire con la propria figlia.
A tal proposito mi accinsi ad andar via di lì. Niente pomeriggi di punizione, niente lezioni pizzose...
Finalmente ero sarei stato l'artefice del mio destino.

THOSE BAD ANGELSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora