Capitolo 21

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"I bambini mostrano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da svelare. Una cicatrice è ciò che avviene quando la parola si fa carne." - LEONARD COHEN - 


MICAH

Kim era in città. Era venuto lì per me.
Mi costrinsi a sollevarmi dal letto, a prendere la giacca e scendere le scale.
Mia madre era in salotto con Carl, stavano guardando uno stupido programma di cucina, erano così presi dalla sfida di dolci che non mi sentirono neppure andar via.
Quella era l'America.
Un gruppo di idioti che fissava la tv come se fossero stati lobotomizzati. Gran bella merda.
Presi la macchina e guidai fino al posto in cui avrei dovuto incontrare Kim. Non mi aveva dato nessun numero di telefono, soltanto un luogo e un orario.
Mi sentivo il cuore stranamente pesante, come se improvvisamente fossi stato costretto a vivere ancora una volta una parte del mio passato che avevo cercato di cancellare via con forza.
Era un enorme parcheggio per autobus appena fuori città. Supposi che Kim non si sarebbe trattenuto abbastanza tempo in città neppure per fare un giro in centro. Era una sosta da un lungo viaggio quella, progettata per vedermi, forse per dirmi addio una volta per tutte.
Sperai fosse così. Perché i rapporti, quando finiscono per diventare malati come il nostro, dovevano avere una fine. Terribile, ma decisiva.
Lo vidi subito, l'avrei riconosciuto tra mille persone, se ne stava seduto sull'unica panchina illuminata del parcheggio.
Non c'era abbastanza luce perché potessi vedere i danni che gli avevo provocato da quella distanza, ma sapevo che c'erano. E non sarebbero mai andati via.
Parcheggiai, e lo vidi voltarsi piano verso la mia direzione.
Ecco la resa dei conti, pensai, mentre smontavo dall'auto e mi dipingevo un sorriso forzato sul viso. Lo stesso che vidi riaffiorare sul suo non appena mi notò camminare verso di lui. Eravamo come due gemelli partoriti dallo stesso grembo.
Mi sembrava di osservarmi allo specchio mentre entrambi allungavamo una mano e annuivamo piano.
Era esattamente come lo ricordavo. Capelli biondi tirati all'indietro, occhi scuri e profondi come pozzi, fisico magro, scattante.
Eravamo della stessa altezza.
Ero vicino adesso, così vicino da poter vedere gli effetti del mio operato sul suo viso.
La pelle cicatrizzata gli devastava la metà del volto destro, dallo zigomo scendeva giù a corrompere la sua bellezza fredda e lievemente androgina, fino a perdersi oltre il colletto del suo giubbotto nero.
Mi bloccai, incapace di distogliere il mio sguardo da quello scempio.
In cambio ricevetti una risata.
Poi quella voce tanto simile alla mia, parlò. - Fu nel sorriso che ebbe osservando compiuto il suo lavoro, chi creò l'Agnello, creò anche te? -
- Tigre! Tigre! Divampante fulgore nelle foreste della notte, quale mano, quale immortale spia osò formare la tua agghiacciante simmetria? - completai il resto della poesia, e Kim annuì.
- Non hai dimenticato William Blake. - constatò mentre mi stringeva forte.
- No, non ho dimenticato nulla, Kim. - dissi a denti stretti mentre lo accoglievo in quell'abbraccio.
I suoi occhi scuri brillarono. - Quando la smetterai di guardarmi in quel modo? -
- Probabilmente quando dimenticherò di essere stato io a farti quello. - dissi, ma mi voltai. Non volevo più vedere.
Kim rise forte. - Andiamo, mi ci voleva una bella ridimensionata. Come dicesti tu tempo fa " Credi di poter ottenere ogni cosa mostrando il tuo bel faccino e ammiccando? Non è così che funziona la vita, Kim." Adesso so che avevi ragione. -
- Questo dovrebbe farmi sentire meglio? - gli chiesi.
Quello fece spallucce. - Beh, suppongo che i sensi di colpa a qualcosa servino, in fin dei conti ... -
- E tu? Ne hai ancora? -
Kim si immobilizzò, stava ancora ridendo. - Li porterò con me nella tomba, amico. -

Il silenzio ci avvolse, mi sentivo stupido lì in piedi, così andai a sedermi sulla panchina e tirai fuori il mio pacchetto di sigarette. - Vuoi? -
Kim accettò. - Grazie, amico. -
L'accesi e ne presi una boccata. - Allora? Dove stai andando? Da dove arrivi? Voglio delucidazioni. -
- Dall'inferno, spero di raggiungere il Purgatorio. Sai, come Dante ... forse un giorno troverò il Paradiso. -
Sorrisi. Era tipico di Kim. - E se non esistesse? -
Quello sollevò il sopracciglio. - Più che esistere si tratta di crearlo, sai? Ognuno deve crearsi il suo piccolo paradiso terrestre. La certezza che non ci sia nulla dopo la vita è disarmante. -
Lo trovai sensato. - Beh, spero ci sia però. Non per noi, sai, ma per quelli che lo meritano. Dovrebbero ricevere un premio alla fine di questo viaggio schifoso. - commentai, e sapevamo entrambi a chi mi stavo riferendo. Non avevamo più parlato di lei. Mai. Neppure al suo funerale.
Kim si irrigidì, ma non deviò il discorso. Sapevo perché era lì dopotutto. - Vuoi parlare della ragazze che rubò i nostri cuori, Micah? -
- Sei qui per questo. -
- Intuitivo come sempre. - commentò, poi tirò una boccata dalla sigaretta e continuò. - In realtà la lasciai morire perché sapevo che mi avrebbe abbandonato comunque. -
Era vero. Lo sapevamo entrambi.
Kim continuò. - La odiavo, sai? Ma non odiavo te. Tu eri come me, ma a differenza mia, ti importava delle cose ... in fondo. Ti battevi per averle ... avevi cura, in qualche modo. -
- Non è morta per colpa tua. - dissi a denti stretti. Non volevo neppure pensarci.
- Ah, no? Chi le passava la droga? -
- L'ho fatto anch'io, Kim, ma ciò non vuol dire che la stavamo condannando a morire. Lei ... non aveva mai saputo moderarsi, lo sai ... -
Kim fece spallucce. - Beh, era la mia ragazza però, non la tua. La conoscevo da cinque anni, Micah, dovevo prendermene cura, no? E' questo che fa la gente di solito con le persone a cui tiene. -
- Tu non sei la gente. -
Rise amaramente. - Già. Purtroppo. - un lungo silenzio. Le nostre sigarette erano già consumate prima che parlò di nuovo. - Ricordi la notte in cui morì? -
Come dimenticarlo.
Io e Kim eravamo fatti, stavamo assistendo ad una di quelle gare di moto illegali che ci piacevano tanto. Avevamo lasciato April a casa, nella sua enorme villa con piscina al centro esatto della grande mela. Sapevamo che si sarebbe fatta alla grande, come sempre. Ma eravamo andati via comunque.
- La ricordo. -
- Beh, non ti ho mai detto una cosa però. - Kim mi fissò, i suoi occhi neri sembravano volermi inghiottire in quel dannato pozzo senza fine.
- Non me l'hai mai detto, è vero, ma credi che non lo sappia, Kim? - gli chiesi, provavo un disgusto assurdo. Per me, per lui. Per April.
- Voglio che tu lo senta dalla mia bocca però, sai aspetto questo momento da così tanto tempo. Voglio liberarmene, forse ammettere di fronte a qualcun altro le mie colpe ... mi aiuterà.-
- No, so esattamente cosa vuoi, Kim. Ti conosco, perché tu sei come me. Non vuoi liberarti di un peso, vuoi qualcuno con cui condividerlo. E le mie spalle sono già duramente messe alla prova. - gli dissi seccamente, ma sapevo che non avrei ottenuto nulla. Lui non si fermava. Mai.
Infatti parlò. - Quella notte, la notte in cui April si stava sparando in vena una delle sue solite dosi da cavallo, lei mi chiamò ... -
Lo sapevo. Avrei voluto urlare, scappare da lì e lasciarmi quel maledetto alle spalle, ma non potevo.
- ... io ero con te. Stavamo assistendo alle nostre gare preferite ... Erano in fase di arrivo. Il momento più entusiasmante di tutta la competizione. Quando quei bastardi provavano a scaraventarsi fuori pista pur di vincere e arrivare per primi al traguardo ...-
- Hai ignorato la chiamata. - dissi, a denti stretti.
Kim rise. - Sì, vidi il suo numero sullo schermo. Sapevo che aveva bisogno di me, ma non me ne importò un cazzo. Volevo che stesse male così come stavo io. Pensai "che morisse pure ... se non può più amarmi, perché dovrei preoccuparmi di lei? Perché dovrei continuare a mettere pezze su pezze ai suoi disastri? Non sono il suo badante del cazzo."-

THOSE BAD ANGELSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora