Il sangue del drago

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L'aria del nuovo Grande Tempio di Baelor era satura dell'odore della cera sciolta e dell'incenso. Jon arricciò il naso a questi odori e si volse a guardare Daenerys. Lei gli stava accanto bene eretta con una retina per capelli di ametiste scure e un abito di satin grigio. Quando incrociò i suoi occhi gli sorrise e lui rispose al sorriso, stringendole la mano.

Dalle vetrate colorate sottostanti la cupola facevano capolino fasci di luce che andavano a trasformare il pavimento di marmo in una tavolozza di colori e quando qualcuno vi ci camminava sopra quei colori lo bagnavano completamente. Dal gigantesco portone socchiuso entrava invece uno spicchio accecante di luce mattutina che tagliava quello stesso pavimento in due.

Tutto quel gioco luminoso non poteva non avere conseguenze all'interno del Tempio e infatti le gemme che fungevano da occhi terreni per i Sette Dei brillavano vivide, dando l'impressione che gli Dei fossero realmente presenti e che ascoltassero la cerimonia. Le loro statue occupavano uno spazio in ognuna delle sette pareti dell'edificio. Gli altari del Padre e della Madre erano posti vicini: lui con la sua pelle d'argento e la sua riccioluta barba dorata che impugnava una bilancia, simbolo della sua giustizia, mentre lei con i boccoli scintillanti di oro, un sorriso sull'argenteo incarnato e un bambino fra le braccia, mentre un altro, un po' più grandicello, tirava ai suoi piedi i lembi della sua gonna.

Per Jon queste erano divinità nuove, quasi sconosciute. I suoi Dei erano stati da sempre gli Antichi Dei del Nord, gli Dei della terra, dei fiumi, del vento fra le foglie e delle nevi perenni. Dei dai nomi dimenticati, persi nella nebbia del tempo, senza inni, libri o sacerdoti, senza mezzi di comunicazione con gli uomini se non la natura e i lacrimanti occhi rossi di un albero dal tronco pallido.

E un corvo onnisciente. Scacciò via subito questo pensiero e vagò con lo sguardo agli altri altari. Candele ardevano a profusione davanti a quello della Vecchia, riflettendo il loro baluginare contro il suo mantello di bronzo. La sua lanterna ardeva di oro e se ne stava stretta ad una raggrinzita mano d'argento e sul suo volto rugoso spiccava uno sguardo saggio. Anche davanti agli altari del Guerriero e del Fabbro era stato posto un buon numero di ceri. Le fiammelle scavavano in quelle gialle o bianche torrette, facendo colare grosse gocce che andavano ad alimentare delle bollenti pozze ai loro piedi. Jon notò che oltre alle normali candele di sego o di grasso d'animale ve ne erano anche di cera d'api, dunque qualcuno di abbiente doveva aver avuto bisogno delle divinità.

Sul capo dorato della Fanciulla era stata posta una corona di fiori freschi, rose per precisione, rose rosse e bianche di cui ella sembrava essere molto grata perché un timido sorrisetto decorava le sue gote argentate, mostrando al mondo i suoi denti d'avorio. Dava l'impressione di essere davvero al cospetto di una pudica vergine che arrossiva alla vista del proprio innamorato.

Invece lo Sconosciuto era quello al quale meno lumini erano stati accesi. Il suo viso non esisteva, sepolto com'era sotto il cappuccio di un mantello di agata nera. Un teschio di marmo era posato fra quelle mani che non appartenevano ne' a un uomo ne' a una donna ma che avrebbero potuto benissimo essere di entrambi. Lo Sconosciuto era la divinità della morte, sapeva Jon, la divinità dell'Ignoto, un eterno viandante, un eterno estraneo fra estranei. Jon si chiese se si sentisse mai solo, lì rilegato in un angolo e quasi mai invocato, quasi come... un bastardo. Eppure era uno strano controsenso: i Septon parlavano quasi sempre dei Sette Cieli e della meravigliosa vita libera dagli affanni terreni che attendeva i fedeli una volta che fossero trapassati e lo Sconosciuto era proprio colui che li aiutava in quel cammino.

Lo Sconosciuto non si trasformava dunque in una divinità amica? In una guida verso le delizie celesti? Perché dunque escluderlo e trattarlo come la pecora nera dei Sette solo perché giungeva negli attimi finali della vita di un uomo?

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