Baci fra le onde

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I ratti e i pidocchi erano ormai la sua compagnia quotidiana in quella cella. I primi erano principalmente notturni e arrivavano quando andava a dormire. Il sonno non veniva quasi mai, ma i ratti invece sì. Gli mordicchiavano le dita dei piedi e delle mani, i loro corpicini pelosi e squittenti vagavano sul suo corpo, si infilavano negli abiti luridi che portava addosso e continuavano a mordicchiare famelici. Si girava e rigirava ma non trovava mai requie. I secondi invece non lo abbandonavano mai. I suoi capelli, quei riccioli che lei aveva tanto amato accarezzare, erano invasi dai pidocchi, unti e ormai troppo lunghi. 

Vi era stato un tempo in cui li avrebbe curati con dovere, quei capelli, in cui li avrebbe ben lavati e profumati solo per lei, affinché potesse liberarli dal codino ogni sera prima della loro unione. Adesso tutto ciò gli sembrava un miraggio lontano. Lei stessa gli sembrava ormai un miraggio lontano. Lei, così bella, così eterea. La sua regina. La sua unica regina. Ora e per sempre. 

La sua regina che aveva ucciso.

Di notte veniva a trovarlo, per quel poco tempo che gli Dei gli concedevano per dormire, e non era mai sola. Suo padre era lì, la testa mozzata sottobraccio e un fiume di sangue al posto del collo, e anche suo fratello con la sua testa di lupo e la corona dalle punte di ferro che gli ricadeva storta sulle orecchie di bestia. Vi era anche la sua matrigna e la sua risata beffarda le sgorgava dal sorriso purpureo che aveva sulla gola. Quegli spettri insanguinati popolavano i suoi incubi, danzavano nel gelo notturno della cella e, soprattutto, erano arrabbiati con lui.

Le loro grida gli rimbombavano nel cervello e rimanevano lì a torturarlo. Lo torturavano con la verità. Gli dicevano che era un assassino e ciò era vero. Gli dicevano che era un bastardo e ciò era vero. Gli dicevano che era un essere non meritevole di esistere, non meritevole di nulla, e anche ciò era vero. Tutto era tremendamente vero. La verità era amara ma non poteva cambiare. Nulla ormai poteva cambiare.

Perché era troppo tardi, aveva firmato la sua condanna con il sangue del suo amore.

Durante il giorno la cella era una fornace. Il sole entrava diretto dalla finestrella e diffondeva il suo calore in ogni angolo. Le pietre diventavano bollenti, quasi ustionanti, specialmente su quelle dove cadeva direttamente la luce. Un'afa intensa si diffondeva per la cella e arazzi d'umidità cominciavano a mostrarsi. Il suo sudore colava a mischiarsi con le lacrime e allora gli occhi gli bruciavano intensamente, percepiva degli aghi invisibili perforargli le pupille. Non poteva fare nulla se non sfregare, ma l'unico risultato che ne otteneva era ulteriore bruciore. E non c'era nemmeno da stupirsi se i carceri si lamentavano della sua puzza.

La notte era tutta un'altra storia. Era il freddo più pungente a dominare allora. Non aveva una coperta e il suo letto era composto da qualche filo di paglia secca. Si rannicchiava in un angolo con le ginocchia al petto nel tentativo di scaldarsi, ma durante il giorno quell'angolo, così come tutti gli altri, era stato sotto il giogo nauseante della muffa e dell'umidità e alla fine della giornata si era formata una piccola pozza d'acqua stagnante. Il suo gocciolio lo conduceva nei reami degli incubi e lo accoglieva al risveglio. La goccia cadeva a pochi centimetri dalla sua testa e non si fermava mai. Continuava a scendere dal soffitto per tutta la notte, il suo plif plof una nenia che non riusciva a tranquillizzarlo. La mattina lo trovava con la tosse e con i brividi e con tanti, tanti pensieri.

Pensieri che marciavano nel suo cervello a qualsiasi ora del giorno e della notte. Pensieri che, era certo, presto l'avrebbero condotto al delirio. Pensieri che non si fermavano nemmeno quando qualcuno veniva a trovarlo. Non che ci facesse molto caso comunque. Una volta erano venute a trovarlo le sue sorelle... poteva ancora chiamarle sorelle? Lui era rimasto per tutto il tempo adagiato sul pavimento in un angolo con gli occhi serrati, pretendendo di non essere cosciente.

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