17- Il lato peggiore di noi

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P.O.V.
Rais

Da lunghe ore non vedo nient'altro che non sia il colore smeraldo di un paio di occhi seri. Credo di conoscerli. Anzi, sono certo di averli rivisti in un altro momento ma la memoria, adesso, sfugge veloce come un animale rimasto per troppo tempo preda, nonostante registri comunque la mia sconfitta.

Non ho idea di dove mi trovi, ho percorso delle scale entrando sotto comando di una stretta maligna. Apparteneva a questi occhi? Forse, avrò modo di domandarglielo nonostante non lo creda. Per il momento posso solo abbandonarmi a questo calore e al rilascio di ogni muscolo che, da una tesa contrazione, finalmente arriva a distendersi lasciandosi scivolare addosso ogni forma di problema e ansia.

Ho un impegno, alle nove, spero di presentarmi per tempo e di non fallire come ho fallito nel consegnare il carico.
Che cosa è che era successo? Per che cosa?

No, non lo ricordo e in questa confusione avverto solo delle voci, come ovattate. Un camice bianco si presenta di fronte a me come uno spettro e si china alla mia altezza. Una luce, poi, sembra colpirmi da lontano e risorgere come la luce sul fondo di un tunnel. Davvero, non ho idea di cosa significhi e capto appena la parola "cura" e "attenzione". Che strano, non ho mai ricevuto nessuna delle due e ipoteticamente arrivo a sospirare, pensando a quanto sia assurda la vita e a come si semplifichino i pensieri, in simili momenti.

Poi un calore più forte mi raggiunge. Il mio braccio si è disteso per qualche motivo e la mano sembra aver sfiorato delle dita, lisce, al termine dei polpastrelli. Un semplice contatto che non ha alcun contesto o ragione di esistere, finendo per annullarsi poco dopo ma non privandomi della sensazione di benessere.

Sto così bene, ripiegato in me stesso. Niente può raggiungermi, qui, tantomeno la famiglia Lee. Niente può farmi del male... ma ho un appuntamento, devo andare.

Cerco di comunicarlo a quella mano che mi ha sfiorato ma non ho idea di dove sia finita. Poco importa, se ha deciso di abbandonarmi. Sono stato solo per tutta la vita. Se la luce e quel contatto ne sono il segnale di fine, allora la morte mi è gradita essendo riuscita a donarmi tutto questo affetto. Pronto, sono capace di andarle incontro e spero davvero di farlo.

Questo mondo è diventato troppo freddo ma qui... qui, nel mio dolore, c'è un immenso caldo.

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Ogni cosa mi precipita addosso non appena avverto il sole raggiungermi e distendersi sulla mia pelle, lasciata scoperta da sopra le lenzuola. In un primo momento, ad occhi chiusi, temo di essere di nuovo finito nel gioco di William.
Di essere nella sua casa, adesso, a fare i conti con una rabbia che non sono in grado di gestire, per questo fingo di continuare a dormire. Poco dopo, però, mi accorgo che il materiale che mi sta sfiorando non è la sua seta ma cotone di una manifattura molto grezza, quasi ruvida. Nessuna ricchezza mi ha raggiunto e nessun problema... o almeno così credo.

Con lentezza, apro gli occhi trovandomi in una stanza completamente dipinta di grigio. Grigie le pareti, grigio il pavimento in lastre opache, grigio il soffitto e bianche le lenzuola. Solo una goccia di sangue macchina il candore di queste ultime e proviene dal mio braccio: trovare la vena si era dimostrata un'impresa ardua, ed eccone ricavato il risultato.

Un ematoma particolarmente esteso, anche lui di una sfumatura grigio-bluastra, evidenzia la gravosa conseguenza del mio intervento drastico e una sensazione di prurito intenso lo accompagna. Inoltre, come accade la maggior parte delle volte, anche la bocca è secca e la lingua ha difficoltà a rispondermi con precisione. La nausea non mi ha ancora sopraggiunto, ma so che è questione di poco.

Dove mi trovo? Ieri notte qualcuno mi ha condotto qui dopo che l'operazione alla vecchia stazione è andata in fumo. La mente rievoca la visione di alcune pistole e pettorine della polizia, portandomi a maledirmi.

Fumo negli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora