30- Anime disperse nel limbo

61 6 14
                                    

P.O.V.
Francis

Certe volte occorre solo lasciarsi tutto alle spalle.
Dimenticare e ripartire.
Far finta di non avere un passato.
Pare essere la scelta migliore per riuscire a respirare come si conviene.

Afferro con entrambi gli indici il colletto della camicia, riflettendo sul fatto di indossare raramente qualcosa di bianco, per poi verificare che anche le maniche, al di sotto del nero maglione che copre tutto quel candore, siano apposto.

Le notti stanno divenendo più gelide nel South Side, specie dentro questa vecchia casa, poi, piena come è di spifferi. Occorre vestirsi pesanti. Il verificare, poi, che l'intero completo sia in ordine è una forma di controllo che può associarsi al rifare il letto, ogni mattina.

Il colletto è apposto e anche le maniche lunghe racchiuse, al termine, con i bottoni dei polsi. Anche il maglione nero aderente non ha problemi al pari dei pantaloni neri, sui quali cade la lunghezza lasciata scoperta dalla parte superiore del vestiario, concludendosi con un paio di scarpe lucide.

Non mi sono mai aggirato con abiti più comodi in questa casa per non dimenticarmi di stare svolgendo un lavoro, facendo quindi primeggiare serietà e compostezza ma più io risulto impostato più il tossico che tengo sotto controllo perde qualsiasi tipo di freno.

Controllarlo sta divenendo difficile così come prevederlo.
Il metadone, fungendo da oppiaceo, sta mostrandoci i sintomi della sua presenza in maniera preponderante.

Sto riflettendo su quella lista infinita di controindicazioni quando, a un tratto, un colpo mi distrae.
Ruoto la testa distanziandomi dallo specchio e con passi veloci il corpo avanza in direzione delle scale, così da affacciarsi sul soppalco e fissare giù.

Rais è caduto a terra, dopo aver picchiato contro un mobile. Il viso è contratto dal dolore mentre una mano è posata sul fianco e addosso... non porta la maglia.

Scendo le scale in modo da raggiungerlo ed i miei passi lo portano a sollevare leggermente la testa, verificando per un attimo la mia presenza.

«Scusami, non volevo svegliarti.»

«Non mi hai svegliato. Avanti, alzati.»

Non voglio ancora toccarlo per cui è il caso che sistemi questa cosa da solo, con le sue forze.

«Dammi solo un attimo e lo faccio...» sussurra con voce rotta, forse dal dolore. Altro non posso fare che aspettarlo ma è come fissare l'agonia di una formica al sole, sotto il riflesso di una lente.

Dopo il metadone è tornato debole e la magrezza del suo corpo non è certo favorevole. Soffermo gli occhi sulla sua pelle bianca solo per un attimo, mentre lo vedo rialzarsi, dopodiché allontano lo sguardo.

«Metti anche qualcosa addosso» sibilo, risentito della sua totale comodità mentre sfoggia dei neri pantaloni della tuta larghi, risvoltati sui fianchi in modo da rendere evidente l'elastico.

L'ho notato l'attimo in cui l'ho visto rialzarsi ma ora non vedo che la sua affilata e bianca mano, posata sul mobile al mio fianco.

«Non voglio, fa caldo.»

«Non fa caldo, ci sono nove gradi. È la sudorazione del metadone.»

«Non mi importa, non lo faccio» esala, appoggiandosi anche con i fianchi al mobile a caccia di appoggio.

Osservo con una furia fuori controllo il suo volto distrutto, gli occhi chiusi che permettono alle lunghe ciglia superiori di unirsi a quelle di sotto e non dico altro.

Semplicemente avanzo verso la sua stanza, frugando tra i vestiti che Attila gli ha dato, per essere poi costretto a tornare sopra, verso la mia.

Provo l'istinto di fumare ma non lo faccio: fumare mi ricorda Gyasi e, al momento, sono arrabbiato con lui.

Fumo negli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora