21- Dammi un buon motivo per fidarmi di te

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P.O.V.
Halima

Per molti anni, come qualsiasi bambina di piccola età ma di grande fantasia, ho creduto che al di sotto del materasso del mio letto vi fosse un terribile e feroce mostro. Ma non uno qualsiasi; credevo fosse una bestia della terra.

Deriva tutto dal racconto popolare delle "sorelle disubbidienti", tramandato nella mia terra da secoli, narrante la storia di due sorelle costrette a separarsi a seguito del rapimento da parte delle bestie del mare per l'una e delle bestie della terra per l'altra.
La maggiore, rapita dalla bestia del mare, viene venduta ad una giovane mentre la minore, presa in ostaggio dalle bestie della terra, viene condotta al servizio di padroni malvagi.

Le due poi si incontrano, poiché la maggiore, una volta incinta e padrona della propria casa, richiede i servigi di una serva comprata al mercato che si rivela essere la sorella, costretta al suo servizio. In un primo momento non si riconoscono e il loro rapporto è molto duro, con una distinzione feroce di ruoli, ma al termine del racconto vi è il lieto fine. Scoperte le reciproche identità, vivono felici il loro rapporto.

Quello che mi traumatizzò, però, la prima volta che lo sentii raccontare dalla gente del mio villaggio fu che le bestie vennero a seguito della disubbidienza ai genitori da parte delle due sorelle, non avendo voluto seguire i loro consigli.
La cosa mi segnò tanto da costringermi, rientrata in casa da quella notte in poi, ad ubbidire a qualsiasi minimo comando che mia madre indirizzasse nei miei confronti.

Sentivo quella fiaba parte di me a causa di una strana somiglianza con la mia vita e le mie abitudini. La tendenza che un tempo possedevo di evitare comandi, da parte dei miei, entrava in relazione, esattamente come nella fiaba, con il contatto e la vicinanza ai miei fratelli.
In Hasim riscontravo un affetto celato, lo stesso provato dalle due una una volta in età adulta, mentre in Gyasi la conclusione felice della fiaba.

Era occorso solo un racconto... per portarmi ad ubbidire. Dai sei anni non ho mai alzato la voce o la testa in direzione dei miei genitori, tranne il giorno del funerale di Gyasi. Quella volta, seppellito il suo feretro in terra desolata, ricordo che pensai a quanto quel luogo sepolcrale fosse arido, privo delle lacrime di un qualsiasi mio parente di sangue. Osservavano tutti la buca senza dire una parola, senza piangere.

Provai a esortarli a fare almeno una delle due cose, a mostrarsi umani e feriti proprio come ero io: arrabbiata con mio fratello morto che mi aveva mentito e tradito sentivo il bisogno di urlare, ai quattro venti, il mio completo dissenso. Smuovere la terra che sarebbe finita per ricoprirlo con un calcio, ma mio padre non la pensava alla stessa maniera.

Spense il fuoco di ogni mia protesta in un solo attimo, torcendo la testa e rimanendo a fissarmi con uno sguardo tanto vuoto da provocarmi il terrore, spedendomi più in basso di quanto stesse Gyasi.

Sì... ho sempre avuto paura delle bestie della terra, ma mentre da piccola credevo che con le loro lunghe braccia scheletriche potessero afferrarmi da sotto il letto e trascinarmi fino alla loro tana adesso, nei miei sedici anni, ho ben capito quale sia il loro vero aspetto.
Non hanno sembianze informi, nessun abito scheletrico che accentui l'assenza di anima, piuttosto una pelle scura, degli abiti tradizionali afgani ed il corpo seduto a gambe incrociate su dei cuscini, nel pavimento del nostro soggiorno.

Le bestie si guardano negli occhi, in un silenzio che è stanchezza per quest'ora tarda, ed io da dietro una porta non posso fare a meno di fissarli per capire quale potente orrore possa provenire dalla loro bocca.

«Ormai ha sedici anni, Latifha. È tempo di darla in sposa.»

Sapevo che sarebbe stato questo l'argomento ma il cuore comunque mi si ferma, al centro del petto, dinanzi alle parole senza emozione di mio padre oltreché al silenzio assenso di mia madre.

Fumo negli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora