47- Zanne di serpe

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P.O.V.
William

Un ritmico suono di tacchi alti batte contro i lucidi pavimenti della proprietà. Tic. Tac. Hanno la precisione di un orologio così come la lentezza dei miei pensieri mentre me ne resto seduto, con il mio calice di bourbon, sulla poltrona designata come mia postazione, riflettendo dinanzi la frammentata oscillazione delle fiamme nel camino.

Il fuoco sta diventando un prestigio. Qualcosa che solamente dentro queste mura veste l'ipotesi di un controllo eppure ruota, respira. Si agita ancora dinanzi ai miei occhi, quasi fronteggiandomi nell'illudermi di possederlo.

Avverto le sue lunghe dita laccate di nero scivolare contro lo schienale imbottito della poltrona, prima di raggiungere le mie spalle.

Bevo un sorso, fingendo che non mi provochi fastidio perché, in fondo, si tratta di uno dei più importanti collaboratori che tirano, e spingono, per far andare avanti questo posto.
Solo mio padre, dall'alto della sua magnificenza irraggiungibile, potrebbe avere il compito di ignorarla ma a me non è dato, per cui sono costretto a sottostare alla sua presenza, ammettendo con disgusto a me stesso che molte delle volte risulti sopportabile.

Giunge dinanzi il mio sguardo con il suo tailleur aderente, i lunghi capelli lisci e tinti di biondo legati in un alta coda che lascia il tempo ad un'onda, fermata dalla lacca, di generarsi austera sulla sua testa slanciandole ulteriormente il viso ovale, conclusosi con una sferzata di purpureo rossore sulle labbra a rendere maligne le sue espressioni ed il suo viso.

«Ti stavo cercando» mi sibila addosso, facendomi sorridere della sua rabbia.

«Non mi sono mai mosso.»

Questo è il mio posto, quando tutto va a rotoli, ed il fatto che lei non lo sappia la rende inevitabilmente distante da ogni tipo di conoscenza.
Semplici affari, tra di noi, e qualche inevitabile incomprensione. Siamo anche molto simili, per certi versi, anche se io sono famosi per il non lasciarmi ingannare.

«Desideravi qualcosa, Dalia?»

La sua coda si muove all'indietro non appena inclina la testa sollevando il mento, a fronteggiare i miei occhi infuocati che la osservano dal basso. Quando prende posto al mio fianco lo fa con passo lento, desiderosa di prolungare l'agonia della nostra reciproca presenza.

«Volevo parlarti di quella telefonata. Sai bene quanto si siano complicate le cose.»

Già, lo immaginavo.
Per questo motivo guadagno un sorso di pazienza, bevendo esausto dal mio bicchiere cristallizzato.

«Ma certo... per chi non ti conosce è davvero impossibile non credere alla tua ingenuità» commento sincero, ricordando bene le sue doti attoriali ed il modo in cui mi avevano stregato, la prima volta che ci siamo conosciuti.

Avevo davvero creduto che fosse una povera ingenua, capitata in una situazione spiacevole quando poi si era reso evidente il suo escamotage solo per sfuggire all'interrogatorio della polizia, mi aveva del tutto conquistato.
Era riuscita persino a raggiungere le lacrime... una situazione alquanto spiazzante.

«Ripetimi il nome dell'uomo.»

«Non me lo ha rivelato, ma aveva una voce simile alla tua» professa, fissandomi poi di rimando mentre picchietta le dita contro la rotonda testa del bracciolo della poltrona.

Blocco la mano dall'esortarmi a bere, ulteriormente, un altro sorso di veleno, fissando divertito la sua affermazione delirante.

«Stai pensando sul serio che abbia effettuato io, quella telefonata?»

«Non è ciò che ho detto, ma se sei tu a insinuarlo...»

«Allora ripetimi ciò che vi siete detti quel giorno.»

Fumo negli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora