41- Confessioni

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P.O.V.
Samuel

Con dita stanche e tremanti, a causa delle poche ore di sonno, afferro la zip del mio gilet nero imbottito per poter mettere ordine alla mia figura di riflesso, alquanto disordinata. Passo le dita tra i lunghi capelli, ricordando come le si sfiorava Dalia i pomeriggi nei quali il sole raggiungeva, in sfumature di tramonti, la nostra stanza.

Nel silenzio di quelle giornate d'amore mi ero arreso all'illusione di una realtà che non mi era concesso di vivere. Al credere che la donna al mio fianco non fosse pericolosa quanto, unicamente, innamorata al punto di battersi, per me, contro tutti, poiché certa della mia storia.

Mi prendeva in giro costantemente per le trecce che facevo ai lati della testa, dandomi del vichingo quando in verità non sopportavo di tenerli della lunghezza che piaceva a lei e che si conformava al mio ruolo, di spacciatore colombiano.

Afferro un nero elastico e nei tornelli della sua rotazione vi incastro le scure ciocche, intrappolandole nello stretto codino. Le occhiaie sul volto evidenziano la stanchezza che il mio stato di ordine apparente, adesso, cela, manifestando la verità dietro al ruolo affidatomi senza il desiderio di farmi mettere a frutto le mie capacità.

La convocazione di Carlail, a quest'ora della mattina prossima all'alba, può essere l'anticipato addio al mio distintivo e alla mia pistola. Sono pronto alla possibilità, non avendo certezza alcuna di ciò che si agita nell'animo di quell'uomo, ricco di misteri.

Afferro le chiavi di casa e mi dirigo verso l'uscita, aprendo il portone con forse più forza del necessario visto il modo con cui sobbalza la figura presente nel corridoio, non appena tiro a me la maniglia guadagnandomi l'uscita.

Mi arresto, trovandomi dinanzi i suoi neri occhi e accorgendomi della stanchezza che anche in essi dimora, così come nelle grinze dei suoi abiti e nelle spalle lievemente ricurve. Rimango per un istante, poi, a fissare dentro il suo sguardo per accorgermi dell'assenza di sorpresa avuta nel trovarmi affianco a lei, sullo stesso pianerottolo. Ad abitare a solo un angolo di distanza, con l'ingresso a tre passi del suo, e mi domando se non sia solo un'allucinazione. Poco dopo, però, noto anche il mazzo di chiavi stretto nella sua mano.

«Nerissa... Abiti qui? Stai rientrando?»

Mio malgrado devo ammettere che nonostante la resa dei suoi occhi, a uno stato d'animo che ha avuto completa vittoria, traspare la bellezza dei suoi tratti geometricamente perfetti, ora più che mai. 

«Sì, da un turno di ventotto ore. La clinica in cui lavoro è stata letteralmente presa d'assalto» commenta, lasciando trasparire anche dal suo tono di voce l'evidente stanchezza.

«Sapevi che abitavamo a fianco?»

«Ti ho visto entrare, un giorno, mentre stavo uscendo per fare la spesa. Si è trattato solo di un attimo.»

«Beh, io sono sorpreso» commento, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e drizzando la schiena, per poterla fissare meglio avendo la porta chiusa alle mie spalle. 

Chissà cosa penserebbe se la vedesse dentro: noterebbe il binocolo sul tavolo affianco alla finestra che temo non le darebbe una bella impressione, oltre che tutte le pratiche di fascicoli privati sparsi per la stanza assieme alla bacheca in poliestere sulla quale ho appeso, con la punta di piccole spillette di ferro, i volti di tutti quei criminali che a vita dovrebbero dormire dietro le celle di un carcere.

Forse mi prenderebbe per un maniaco o per un pazzo, visto l'evidente fanatismo, ma mi domando se sia cosciente del fatto che, in effetti, io sia un poliziotto.

«Perché mai?» Mi domanda.

«Credevo che la tua clinica fosse dalla parte opposta della città. Un po' scomodo abitare qui, non ti pare? Quanto ti occorre per andare a lavoro? Mezz'ora? Un'ora?»

Fumo negli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora