Capitolo Dieci

2.3K 55 2
                                    

Zayn

Essere tornato in questo stato del cazzo non è stata una mia idea.

Se fosse stato per me non ci avrei mai più rimesso piede, perché anche solo respirare l'aria di questo posto mi fa sentire male, ma il coach non ha voluto sentire ragioni. Ho già saltato una partita qualche settimana fa, perché il giorno prima del match — che corrispondeva con l'anniversario del giorno in cui ho lasciato Alissa — ho avuto la brillante idea di sbronzarmi e distruggermi una mano a suon di pugni contro il muro.

La mia mano dominante, per la precisione.

Mossa molto stupida, perché giocare la partita contro i Vikings e sopportare la sua mancanza a stati di distanza sarebbe stato molto più semplice rispetto che ritornare in South Carolina e giocare una partita a poche ore di distanza da lei.

Peccato che un'altra assenza avrebbe significato essere messo in panchina per il resto del campionato ed io non potevo permetterlo, perché il football è l'unico modo in cui riesco a tenere occupata la mente e impedirle di finire in luoghi troppo oscuri da cui poi fatico a riemergere.

Perciò eccomi qui, nel fottuto South Carolina.

L'unica cosa positiva di essere capitati a giocare a Columbia è che qui i tifosi sono pazzeschi — forse perché sanno che sono originario di questo posto e sono particolarmente fieri di me — e, insieme allo stadio tinto di blu e arancio, in un mix di maglie, bandiere e cartelloni mozzafiato, hanno contribuito a farmi giocare meglio del solito. O forse, a pensarci bene, è più probabile che sia stata la rabbia che avevo in circolo nel corpo a causa del mio ritorno, a farmi portare a casa la vittoria.

Ad ogni modo, quello che conta è che ho fatto ciò per cui sono venuto qui.

Mi sarei dovuto accontentare della vittoria, festeggiare con i miei compagni di squadra in un buon pub, magari per fino trovarmi una scopata con cui dimenticare dove fossi e poi ritornare a Chicago con il jet privato dei Bears la mattina dopo la partita.

Nessun viaggio nel viale dei ricordi, nessuna sfida contro il karma, nessun rischio di soffrire. Semplice, no?

No, perché io su quel jet non ci sono salito e ho deciso di sfidarlo, quel maledetto karma, rimettendo piede a Charleston dopo cinque anni di assenza. E ovviamente, il bastardo me l'ha fatta pagare sbattendomi in faccia l'immagine di Alissa e della sua famigliola felice.

Ecco cosa odio di più delle piccole città come questa: è quasi scientificamente provato che se c'è qualcuno che non vuoi incontrare, puntualmente lo vedrai. Ed io Alissa proprio non la volevo vedere.

Ne sei sicuro? chiede una vocina fastidiosa dentro la mia testa.

Sì, ne sono fottutamente sicuro. Sono tornato soltanto per visitare il luogo in cui è stata sepolta mia madre, che sono altrettanto sicuro — se potesse ancora parlarmi — mi insulterebbe per come ho mandato a puttane la mia vita.

E no, non parlo della mia carriera sportiva, perché quella va a gonfie vele. È tutto il resto che lascia desiderare.

Quello che non avevo messo in conto, però, era imbattermi nel più grande rimpianto di tutta la mia vita, che ora ha anche un fidanzato che sembra il maledetto principe azzurro in persona e una figlia che, mi costa ammetterlo, ma è stupenda. Ha lo stesso modo di fare impacciato e buffo di sua madre da piccola, ma purtroppo fisicamente è uguale al suddetto principe azzurro. La cosa più divertente, però, è che adora il football ed è pazza di me. Non dovrebbe, ma questa cosa mi fa sentire un po' meglio, perché probabilmente sentirmi nominare ed elogiare quotidianamente farà andare Alissa su tutte le furie e, ancora di più, il suo nuovo compagno. Perché io non so nulla di paternità, figli e via dicendo, ma sono più che certo che se avessi una bambina e lei stravedesse per un uomo che non sono io, impazzirei.

The Greatest VictoryDove le storie prendono vita. Scoprilo ora