2- Il vetro, il muro e il grido

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Tento di trovare una posizione in questa vasca divenuta improvvisamente troppo stretta, con il solo scopo di ribellarmi a lui e riuscire a scappare via.

Le mie guance si sono arrossate mentre il mio cuore arrabbiato mi suggerisce di liberarmi e scappare.

Poso le mani sul bordo tentando la fuga ma ricevo una presa più forte sui fianchi, a rimettermi apposto.
A quel punto mi arrendo ma sono una furia, ritrovata la rabbia persa da dopo l'abbraccio di Ian, in grado di calmarmi.

Possibile che lo stesso gesto, fatto da due persone diverse che condividono in egual modo il medesimo spazio nel mio cuore, possa provocare reazioni opposte?

Eppure è sempre stato così, io e Caleb eravamo il fuoco, Ian la nostra acqua.

<Ian mi stava aspettando, ho pranzato con lui> dico nella speranza di ferirlo, ma non me lo permette. 

<E non avevi nemmeno il tempo per un saluto?>

Maledetto.

Ancoro gli occhi alla disposizione a rombo delle quadrate mattonelle bianche decorative del bagno presenti sulle pareti, pensando a un altro modo per fargli male, mentre questi capelli, il vestito ancora più fradicio, mi trascinano sempre più in giù, verso le profondità della terra.

Una delle sue mani, dal mio fianco, corre ad afferrarmi il mento, obbligandomi a fissarlo, ma scappo presto dalla presa.

Non si dà per vinto.

Ripete il gesto ottenendo lo stesso finale, così cambia tattica e decide di spostarmi.
Siamo graffi e lividi lasciati da prese serre di posizione, riesco a ferirlo più volte lasciandogli un segno appena sotto l'occhio destro con le unghie, un morso su uno degli avambracci ma in ogni caso è lui a vincere, ed io, quasi senza accorgermene, mi ritrovo seduta carponi sul suo corpo, con la stretta delle sue braccia dietro la schiena, ad avvicinarmi ancora di più a se.

Fin da bambini Ian e Caleb sono stati diversi, in tutto, ma sopra ogni comportamento, gusto, o atteggiamento quello che veramente li caratterizzava distinguendoli con una linea netta era il loro approccio nei miei confronti, la reazione che avevano alle mie frasi o il semplice modo di parlarmi. E questo lo si notava in tutto ma principalmente in tema di dolore.

Scoprii, già da bambina, la fragilità di Ian alle mie provocazioni, l'emotività avuta nell'accorgersi principalmente che mentre gli urlavo contro, mentre vaneggiavo strillando cose che nemmeno pensavo, lui riusciva a vedermi, capiva come stavo, e di conseguenza non erano le mie parole ad appiccarglisi addosso ma le mie emozioni, stava male perché ero io a stare male, e di tutto quel dolore lui se ne faceva un manto, per tentare di strapparmelo via. Era il mio bersaglio ed io la malvagia freccia che lo colpiva, fino a scalfirsi la punta.
Un vetro che si scheggia colpito dalla tua ferocia, rivelandoti dopo quel pugno il riflesso deformato del tuo viso.
Mi faceva sentire un mostro. E una volta finito di urlare stavo peggio di prima. Non credo se ne sia mai accorto. Mi sentivo ... sporca, mentre lui era un punto irraggiungibile sulla mia traiettoria, che mi aveva fatto illudere di averlo colpito.
Non credo di aver mai fatto nulla di buono per meritarlo.

Mentre invece Caleb ... Caleb era un muro di gomma contro cui urlavi, sempre più forte, e ti rispediva tutto indietro, amplificato. Era il risultato di tutta la mia vita, il premio ironico del mio passato, la codarda testardaggine di un'ignoranza che ci prende e ci divora fin dentro le ossa, quell'odio che noi poveri abbiamo, quel rancore, quella rabbia, quel mostro che ci mangia vivi fino a distruggerci.
Con lui ho litigato nel peggiore dei modi e non ne vado fiera, ne ho tratto molto dolore, gliene ho lasciato addosso altrettanto, perché alla fine della battaglia uno di noi due, se non entrambi, si sentiva inevitabilmente ferito.
Alle volte eravamo mostri entrambi. Alle volte il solo con le unghie più affilate.
E questo modo di farsi la guerra, se possibile, faceva ancora più male del risultato tratto da Ian.
Non ci parlavamo per giorni, alle volte settimane. In quei periodi sentivo il cuore rotto e non appena incontravo il suo sguardo tornava tutto a galla, le parole vomitate, l'immagine delle vene sul suo collo, il suo dito puntato addosso, alle volte le sue mani ... e non posso non pensare che lui mi abbia visto allo stesso modo, nei miei peggiori abiti, modi, graffi ... ci lasciavamo pure dei segni sul corpo, come adesso, per possesso forse, per dominazione, per rabbia ... non l'ho mai capito, forse era sempre stata la legge del più forte a vincere, il predominio sull'altro ci faceva stare bene mentre soffrivamo, se pure da cani, dopo.

Ali di farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora