12) COMPAGNIA INDESIDERATA

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Solo quando si lasciarono alle spalle anche l'ultimo carro dell'Urdu, Saaràn si permise di respirare liberamente.

Erano passate soltanto poche ore dal suo arrivo all'accampamento Un e già non ne poteva più di stare in quel luogo.

Dietro a lui altri due cavalieri lo seguivano, tenendo il suo passo e mantenendosi a una certa distanza l'uno dall'altro.

Uno era un soldato, un giovane Scengun; l'altro un servo, un Nonun, con uno strano cappello verde a punta che cadeva floscio sulla schiena, con un sottogola che lo teneva ben saldo alla testa.

Ognuno dei tre cavalieri teneva per la cavezza un Tarpan di riserva, carico di cibo e indumenti.

La fine pioggerella che aveva tormentato il Naaxia e il soldato all'arrivo aveva terminato di cadere e sopra alla piccola carovana un pallido sole aveva fatto capolino attraverso le nuvole.

Saaràn guardò in alto e sorrise. Ten-gri era con lui.

Con devozione si sfiorò la fronte e pensò che la vita era bella.

Quel giorno Ten-gri gli sorrideva e sopratutto era ancora vivo.

Per quanto fosse dispiaciuto per la salute dell'antico amico d'infanzia, dopo aver visto quello che accadeva nell'Urdu, era contento di essere sfuggito da quell'inferno ed essere tornato nell'unico luogo dove si sentisse veramente al sicuro: la Steppa.

Dal momento che era arrivato nei pressi dei suoi simili, l'avevano percosso ferocemente, imprigionato e quasi soffocato.

In quel breve lasso di tempo ci fu un momento in cui raccomandò la propria vita alla Signora dei Monti d'Oro.

Per ogni colpo ricevuto vedeva l'immagine di sua moglie e dei suoi figli sbiadirsi sempre più nella speranza di rivederli ancora, invece, per quanto fiacco e ammaccato, ne era venuto fuori e stava tornando a casa.

Aveva stretto i denti e con la forza della disperazione era riuscito a tornare indietro.

Aveva il volto tumefatto, provava dolore in ogni muscolo e ogni articolazione del suo corpo era torbida come acqua stagnante; incontrare il suo vecchio amico era stata una prova dura e spietata, però ne era uscito vivo.

Mugolò dal dolore, quando Monglik inciampò su di un sasso.

Aveva abbastanza esperienza per sapere che non aveva nulla di rotto sia dentro che fuori del suo corpo, comunque fosse, se i colpi precisi e violenti che gli erano stati dati avevano avuto l'intento di fare male, avevano raggiunto in pieno il loro obiettivo.

L'avevano ferito per nulla, accrescendo in lui la convinzione che la Steppa era la sua casa, non l'accampamento con i suoi intrighi.

Lui temeva la violenza inutile, non la capiva e ne era sempre disorientato. Cinque Un erano morti a causa sua e non era certo che fossero stati eliminati perché disobbedienti a un ordine di Kutula.

Temeva altro, qualcosa che non si doveva sapere nell'Urdu.

Il Khan era astuto, infido e pronto a tutto pur di ottenere quello che voleva.

Fin da giovane Kutula era stato ambizioso oltre ogni limite e se era riuscito a mantenere il potere per così tanto tempo, lo doveva alla tenace ferocia che sapeva avere e a una determinazione che rasentava la dissennatezza.

Anche da bambino non si fermava davanti a nulla pur di ottenere il potere, ma ora che era ammalato, che rischiava di perdere definitivamente il controllo sull'Orda, cosa sarebbe stato disposto a fare per mantenerlo?

Negli anni della loro amicizia Saaràn l'aveva visto più volte distruggere con rabbia ciò che non poteva ottenere con l'astuzia e questo lo preoccupava.

OCCHIO LIMPIDODove le storie prendono vita. Scoprilo ora