49)IN MARCIA

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Saaràn era fiero di sé.

La sgangherata porta della Yurta che per tanti anni era rimasta appesa sbilenca sui cardini, ora si chiudeva alla perfezione.

Assieme a Helun aveva passato tutto l'inverno a rimettere a posto il carro su cui la tenda era montata e quello era l'ultimo lavoro che gli rimaneva da ultimare prima di partire.

Quando alla fine dell'autunno iniziarono a metterci mano, lui con ascia, chiodi e martello e lei armata di una solida ramazza, Saaràn si sorprese di quanti lavori si erano accumulati nel tempo per colpa della sua incuria, ma ora, con quel piccolo ritocco alla porta, li aveva terminati tutti quanti e poteva tirare un sospiro di sollievo.

Con due dita la fece aprire e chiudere. Aprire e chiudere. Funzionava alla meraviglia.

La moglie, da dietro, gli diede alcune pacche frettolose sulle spalle per congratularsi con lui e poi gli disse: "Bravo, ora possiamo andare".

Un leggero sorriso gli increspò le pelle dura come il cuoio del volto.

Helun aveva fretta di partire e dalla sua voce Saaràn capì che la moglie era contenta di farlo forse anche più di quanto non lo fosse lui.

Le era piaciuta subito l'idea di tornare a cercare la tomba del figlio terzogenito morto per parto e da allora era apparsa più soddisfatta, quasi felice.

Più o meno quanto lui.

Respirò a fondo.

Un debole vento gli sferzava i capelli sempre più grigi.

La primavera profumava l'aria e il sole scaldava il terreno della valle che l'avrebbe condotto verso la Steppa.

Il disgelo era finito.

Il torrente che soltanto fino a pochi giorni prima defluiva impetuoso nella gola che circondava il Castello di Pietra, ora, svuotato dalle nevi fuse delle montagne, scorreva placido attraversando il pianoro ingombro dalle Yurte degli Un.

Nella notte aveva piovuto, l'erba era ancora bagnata, ma al momento Ten-gri era terso, nemmeno una nuvola l'attraversava e dall'alto lo incitava a partire.

Vi alzò gli occhi a guardarlo, incuriosito, e si toccò la fronte in segno di rispetto.

Gli pareva che lo chiamasse, pronunciando il suo nome ad ogni alito di vento che giungesse dalla Steppa.

Ora che Saaràn sapeva che stava per riprendere la via della prateria, gli pareva che anche il cielo fosse meno triste, meno avvizzito stretto com'era tra le cime di quelle montagne che a breve lui e la moglie si sarebbero lasciati alle spalle a dorso di cavallo, così come vi erano arrivati l'anno prima.

Ancora poche ore di cammino e poi sarebbe stato di nuovo il suo Ten-gri, il suo cielo steso sul mondo, infinito, terso, bellissimo ed egli vi si sarebbe affidato con fiducia, cavalcandogli sotto come un tempo.

Il suo tempo era adesso.

Non tutto era terminato e aveva ancora una meta, uno scopo.

Sapeva che avrebbe ancora viaggiato tra gli altipiani della prateria e un giorno che si augurava lontano, vi sarebbe morto felice.

Dopo sapeva che non avrebbe cavalcato più, ma non gli importava.

Era ciò che era capitato a suo padre e al padre di suo padre ed era quello che egli voleva per se stesso.

Annuì, guardando Ten-gri. Sì, era quello che voleva per se stesso.

Un nitrito attirò la sua attenzione.

In basso, trattenuto da un Margaash, il giovane Monglik l'attendeva già sellato e lo chiamava.

Al fianco dell'irrequieto morello vi era il vecchio Monglik, libero di andare dove voleva, senza sella, né cavezza.

OCCHIO LIMPIDODove le storie prendono vita. Scoprilo ora