29) SCONCERTO (Seconda Parte)

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Eppure, vedendo Monglik così stanco e malato, Saaràn ebbe una stretta al cuore e una malinconica morsa gli salì dallo stomaco fino agli occhi, minacciando di farlo piangere ancora.

Per quanto avesse miracolosamente ritrovato in vita il suo cavallo dopo averlo abbandonato, sapeva che il tempo del Tarpan era giunto quasi al termine.

Da uomo afflitto qual'era in quel momento, sentiva che dopo quello che aveva visto per tutto il giorno, anche se il destriero fosse guarito, per loro due nulla sarebbe stato più lo stesso.

Il tempo delle infinite galoppate nella prateria era giunto al termine per entrambi.

Non avrebbero più potuto cavalcare assieme come una volta.

Gli anni già vissuti e la ferita inflittagli alla gamba dalla freccia Hanbakai, avrebbero impedito al Tarpan di portarselo ancora in groppa e a nulla sarebbe valso sperare il contrario.

Per quanto questa semplice e crudele verità ferisse profondamente Saaràn, anche questo egli lo interpretò come un segno, come un messaggio inviatogli da Ten-gri, che voleva fargli comprendere che le cose stavano per cambiare per ambedue.

Erano vecchi, che lo volesse o meno.

Il vecchio Monglik, lui stesso, tutti quelli che come lui avevano già vissuto buona parte della propria vita, rappresentavano il passato, un mondo antico che prima o poi sarebbe inevitabilmente andato a finire.

Doveva comprenderlo, accettarlo, iniziare a pensare a farsi da parte, pensare al dopo, prima che fosse troppo tardi e altri lo facessero per lui.

L'immobilità in cui aveva trascinato la sua vita, doveva terminare prima che fosse troppo tardi, altrimenti sarebbe stato peggio per sé e per la sua famiglia.

Non era semplice accettarlo, ma era così.

Ripensando alle parole della Signora, comprese che Lei aveva ragione. Quando Frassinella diceva che erano gli Un che dovevano decidere cosa fare della propria esistenza e non il resto del mondo, diceva il vero.

L'Urdu era un'anomalia nel mondo, non il contrario.

Vedendo il proprio cavallo sofferente in quella stalla, Saaràn intuì l'inutilità di tutto quello che aveva fatto fino ad allora.

Percepì in modo forte e chiaro che gli Un che aveva condotto per la Steppa per tutta la vita, altro non erano che un cancro, una malattia sulla terra che ovunque passasse distruggeva tutto quello che toccava, per poi andare oltre, a cercare altre vittime, soddisfatta di non lasciare altra traccia del proprio passaggio che morte e distruzione.

Gli Un erano un morbo che si propagava attraverso la prateria e radeva al suolo tutto quello con cui veniva a contatto, senza mai costruire nulla, senza mai lasciare nulla a quelli che sarebbero venuti dopo di essi.

Generazione dopo generazione, ai loro figli gli Un insegnavano solamente a uccidere e a distruggere.

Dietro di sé, gli Un non lasciavano che morte e distruzione e tutto questo era poco.

Troppo poco, per chi voleva di più per i propri cari.

Per Saryn, per Gerel, per i suoi figli Saaràn voleva qualcosa di più di una manciata d'erba calpestata e qualche stantio ricordo.

Voleva lasciargli qualcosa per cui un giorno avrebbero potuto essere fieri di lui e forse, forse, quella luce che aveva scorto nei loro occhi durante quella giornata così diversa dalle altre, quelle risate, quella gaiezza così rara, forse l'avrebbero riservata al ricordo di un padre che, pur sbagliando, comunque a modo suo li amò con tutte le sue forze.

OCCHIO LIMPIDODove le storie prendono vita. Scoprilo ora