22) RISVEGLIO

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Il giorno dopo, all'alba, il primo a svegliarsi fu Saaràn.

Era dolorante, teso, nervoso, ogni osso del suo corpo reclamava di potersi muovere dopo la lunga immobilità del torpore notturno.

Per i suoi gusti, il materasso che i Togril gli avevano assegnato era troppo morbido.

Aveva dormito poco e male.

Lui era abituato a stendersi su di un tappeto sdrucito all'interno della Yurta, su assi ruvide, per terra, ma non su morbide piume che si spostavano sopra al letto ogni qualvolta si girava.

Avesse potuto l'avrebbe scaraventato fuori della stanza, pur tuttavia non era quello ad averlo innervosito.

La vecchia ferita alla schiena gli bruciava come fosse in fiamme, quasi volesse ricordargli chi gliel'aveva inferta tanti anni prima.

Faceva ancora fatica a credere che Muu-Gol fosse definitivamente scomparso dalla sua vita.

Gli pareva impossibile, questa era la verità.

Dopo tutto quello che quell'uomo aveva fatto a lui e alla sua famiglia, saperlo sparito così di colpo gli lasciava nell'animo un vuoto difficile da colmare.

Per colpa di quell'essere malvagio aveva dovuto fuggire con tutta la sua famiglia, per giorni si era sentito inseguito, cacciato, braccato come un animale, aveva dovuto lasciare nella Steppa il compagno, l'amico, di una vita intera e ora tutto questo, era finito in niente.

Il pensiero di Monglik abbandonato inutilmente senza cure in mezzo alla pianura, lo tormentava.

Se veramente Muu-Gol e i suoi uomini erano stati sgominati, l'aveva sacrificato per nulla e forse avrebbe potuto salvarlo.

Inoltre, per giorni e giorni aveva sperato di poter vendicare l'onore delle sue donne uccidendo con le proprie mani quell'uomo, invece la Signora, arrivando prima di lui, gli aveva tolto anche il piacere di quel privilegio.

Dopo troppe ore passate a rigirarsi insonne, alle prime luci si alzò volentieri.

Dormire in un letto non faceva per lui.

Troppo soffice, troppo comodo per chi era abituato da sempre alla Yurta e all'erba della Steppa.

Nonostante l'avere tutta la famiglia accanto a sé lo avesse sollevato dai timori che lo avevano assillato nei giorni appena passati, dormire in una stanza di pietra non faceva per lui.

I passi ritmati e cadenzati dei soldati a guardia degli spalti che a intervalli regolari gli passavano sulla testa, l'avevano tormentato per tutto il tempo.

Andavano e venivano; andavano e venivano, senza mai fermarsi un solo momento.

L'idea che il soffitto potesse crollargli addosso da un momento all'altro lo agitava, ma era pensare a quello che gli aveva detto la Signora la sera precedente, a creargli uno stato di tensione che non riusciva a togliersi dalla mente.

Gli aveva detto che lui e i suoi non erano prigionieri, che avrebbero potuto andare dove volevano, ma sarà stato vero?

<Avrà detto la verità?>.

Quante volte nell'oscurità di quella notte infinita se l'era ripetuto ossessivamente, tentando di convincersi, per quanto, ogni volta avvertiva il passo dei soldati, non sapesse darsi una risposta certa.

Tutta quella roccia sulla testa riusciva a togliergli il fiato, il sonno, lo opprimeva, gli dava l'impressione di soffocare, ciononostante era l'incertezza ad averlo svegliato.

L'incertezza di non poter più uscire del pasticcio in cui si era venuto a trovare e in cui aveva portato anche la sua famiglia.

Togriluudyn, i Togril, il Castello di Pietra, tutte queste cose lo spaventavano. Troppo stabili, troppo robuste, troppo diverse.

OCCHIO LIMPIDODove le storie prendono vita. Scoprilo ora