ASHLEY

Cazzarola, devo camminare più tranquilla, se voglio portare a casa le birre intere! Senti come tintinnano, tutte quante. Accidenti se è difficile caricarsi tre casse di birra...

Ne avrei portate molte di più, ma da sola certo non ce la faccio.

E poi lo sguardo della cassiera era colmo di... cos'era quello, dispiacere? Compassione?

Al diavolo, tutti quanti. Non hanno perso un fratello, loro.

La sera si sta avvicinando, l'idea di chiudermi nella solita sala da biliardo a bere, giocare e vincere mi procura un piacere inaspettato. L'alcol funziona, spegne il cervello nella maniera più assoluta, il gioco fa lo stesso.

Leon svanisce per un po' dalla mia vita, Jean non è più un problema, i sentimenti finiscono azzerati. Ci sono solo la stecca e la bottiglia, null'altro.

Non ho obblighi, non ho pensieri, posso sfasciarmi fino alle cinque del mattino senza che nessuno dica nulla, finché il fisico mi regge, certo.

E poi, tutti a casa, a riposare fino a domani sera. Che bellezza.

Sorrido a me stessa, qualcosa mi blocca. Lo vedo, è lui, di nuovo.

Jean, appoggiato al muro del mio palazzo, vicino al portone in alluminio dorato.

Ed è come vedere un angelo. Bellissimo nei suoi pantaloni stretti, le gambe lunghe e il petto asciutto sottolineato dalla camicia bianca.

Si gira, mi vede, mi scruta con una luce diversa in volto, e ho la sensazione di essere nuda.

«Dobbiamo parlare», nemmeno mi saluta.

Mi costringo a guardare altrove, «Sei il solito testardo.»

«E te un'alcolizzata. Quel vetro di bottiglia si sente lontano un miglio.»

Sento la rabbia salirmi al cervello, come osa darmi dell'alcolizzata?

«Sono affari miei, non ti riguardano!»

Lui ridacchia, «Pensi davvero che le tue chiacchiere possano fermarmi?»

«Lascio la band.»

Cala il silenzio, sono riuscita a farlo stare zitto. Va segnato sul calendario.

«Che hai detto?»

«Hai capito benissimo, me ne vado. Me ne sono già andata, voi avete Eros.»

«Ashley», la sua voce trema, «Ti rendi conto della stronzata che stai dicendo? Lasci i Bloodshed? Lasci noi

Sollevo le spalle, «Vi ho già lasciati.»

Bene, ho vinto io, glielo leggo nello sguardo. Mi avvio verso il portone, gli passo vicino e lo sfioro, il suo odore mi colpisce il cervello, mi sento afferrare.

Le braccia di Jean sono attorno alle mie spalle, mi riportarono alla mente sensazioni bellissime e insieme dolorose. Si sta aggrappando a me, come fossi la sua ancora di salvezza.

«Non rifiutarmi. Ti prego.»

Ho il suo respiro sul collo, la pelle si arriccia fino ai miei punti più sensibili, i sensi di colpa sono dita che mi stritolano il cervello.

Devo liberarmi, il suo odore mi dà alla testa, potrei capitolare in questo abbraccio, e non posso.

Non posso farlo.

Mi libero dalla sua presa, è difficile, mi strappa il cuore ma devo farlo. Mi accosto al portone, apro e mi fermo.

Lo guardo ancora una volta, l'ultima. Il volto di Jean è una supplica, una mano si allunga verso di me, rimane a mezz'aria in attesa di un contatto.

Non posso.

Varco la soglia, il portone si chiude in un tonfo.

Varco la soglia, il portone si chiude in un tonfo

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