•CAPITOLO 79•

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Spalancai gli occhi, immediatamente. Un turbine d'ansia mi crebbe dentro.

"Di cosa?" -chiesi, sperando in nulla di grave.

"Di te." -alzai la testa, mettendomi a pancia in giù, in modo da poterlo guardare per bene.

Di me?
La mia dea interiore si mordicchiava le unghie, in attesa.

"In particolare?" -domandai.

"Perché prendi quelle pillole?" -chiese. Il suo tono era basso e la sua voce roca. Chiusi gli occhi ed abbassai lo sguardo. Mi sdraiai di schiena, facendo scivolare via il suo braccio.

"Tamara?"

"Non voglio parlarne." -afferrai la mia biancheria intima e la infilai frettolosamente.
Lo sentì muoversi nel letto, forse anche lui si stava rivestendo. Non mi voltai, ma afferrai una sua camicia dalla sedia e la indossai.
Scesi le scale, abbottonandola. Andai in cucina, ma non avevo fame; usciti dall'ospedale, pranzammo. I controlli ci avevano rubato altre due ore. Uscì dalla stanza e mi gettai a peso morto sul divano del salone, accendendo la televisione.
Sentì i suoi passi sulle scale. Continuavo a girare i canali, non rivolgendogli uno sguardo. Si sedette sul divano, allungando le mie gambe sulle sue.

"Non voglio aggredirti, Tamara. Voglio solo capire."

"Harry, non voglio parlarne. Passami quella coperta, per favore." -dissi.

Posò la coperta sulla mie gambe, stringendomi a lui.
Posai il telecomando sul bracciolo del divano, lasciando la TV su di un programma di moda. Mi voltai a guardare il cielo. Era pieno di nuvole grigie, ma non pioveva.

"Le prendi per colpa mia? Per quello che sta succedendo?" -insistette.

Lo guardai. Non volevo che si sentisse in colpa. Sembrava così innocente. Sembrava un bambino.

"No, Harry. Tanto non le prendo più." -respiravo a fatica.

Lo vidi alzarsi, camminare verso il muro con le mani nei capelli.

"Me ne sbatto se non le prendi più!", urlò, voltandosi verso di me.

"Lo capisci che sei finita in ospedale per quelle cazzo di pasticche?" -continuò.

Mi stava urlando contro. Mi venne da piangere, ma mi trattenni. Era arrabbiato.

"Lo capisci che il tuo corpo è troppo debole per quel cazzo di medicinale?" -continuava ad urlare e camminare avanti e indietro per il salone. Mi faceva quasi paura. Non si era mai rivolto così a me; mai nessuno lo aveva fatto, a parte mamma.
Senza rendermene conto, una lacrima cadde sulla mia guancia, ma l'asciugai immediatamente. Non volevo mostrarmi debole.

"Non lo capisci. Certo che non lo capisci."

"Non ti permetto di parlarmi così." -mi alzai, andandogli incontro. Si voltó a guardarmi, silenzioso. I suoi occhi erano scuri e fissi nei miei. Poche volte, mi era capitato di vederli così scuri ed era un vero peccato; i suoi occhi verdi erano qualcosa di indescrivibile.

"Non sei mio padre." -continuai. La mia voce era tremante.

"Ma mi prendo cura di te come se lo fossi, Tamara." -disse, facendo un passo verso di me. Inconsapevolmente, feci un passo indietro e lui se ne accorse, poiché girò leggermente la testa, come per capire. Mi faceva paura, in quel momento.
Mi voltai e andai verso la camera da letto.

"Tamara non salire quelle cazzo di scale." -dice, pacato. Mi bloccai immediatamente.

"Vieni quí." -ordinó. Contraeva la mascella e stringeva i pugni per la rabbia. Mi voltai, ma non mi avvicinai.

Il professore della porta accantoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora