•CAPITOLO 76•

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Harry:

Guardai per la millesima volta la parete grigia difronte a me. Come fa ad esserci sempre movimento, qui dentro? Entravano fino a 5 nuovi detenuti al giorno. Il rumore delle sbarre, del metallo, cominciava a darmi su i nervi. La luce era fioca, la cella piccola e scomoda; aveva voglia di una doccia, di casa mia, di Tamara, che infondo, lei stessa era casa mia.
Pensavo ogni secondo a cosa stesse facendo. Avevo paura, paura che lui potesse farle del male. Era arrivato a minacciarla con una fottuta pistola; lei, così piccola, innocente. Non avrei mai dovuto permettergli di vederla. Se le fosse successo qualcosa, sarebbe stata solo colpa mia.
Scesi da quello che loro chiamavano letto e cominciai a fare flessioni; mi distraevo.
Una guardia fece passare due contenitori di plastica dalle sbarre. Sapevo che all'interno vi era del cibo e che sarebbe passata un'altra guardia che distribuiva bottigliette d'acqua. L'unica cosa che avevo mangiato dall'entrata, fu un tozzo di pane, solo per disperazione; non avevo fame. Volevo solo Tamara. Avevo bisogno di sapere che sia lei, che mia madre e mia sorella, stavano bene; che erano al sicuro, tutte insieme.
Mi sollevai dal pavimento, pulendo le mani sulla divisa che indossavo. Lanciai il contenitore sul letto del mio compagno di cella ed aprí il mio. Cosa era? Riso in bianco? Strappai il pacchetto di carta che conteneva delle posate bianche di plastica e affondai la forchetta nel riso e la portai alla bocca. Che schifo.
Alzai lo sguardo, quando sentí il rumore del metallo che emettevano le sbarre; il mio compagno di cella era accompagnato da due guardie.

"Finalmente mangi." -disse lui, quando si gettò sul suo letto.

Era un uomo sulla trentina, ma non sapevo il perché fosse dentro. Quando arrivai, era già quì.
Non risposi, mi sedetti sul mio letto e poggiai la schiena alla parete fredda. Lui mangiava tutto ciò che veniva lasciato in cella, a volte anche ciò che non mangiavo io.

"Perché sei dentro?" -gli chiesi.

"Ho dato fuoco a delle auto." -rispose.

"E perché?"

"Tempo fa, diedero fuoco alla mia auto, nuova di zecca. Immagina quanto fosse bella. Mi vendicai, semplice. Diedi fuoco ad una ventina di auto." -rideva. Ne sembrava soddisfatto.

"E tu? Perché ti hanno sbattuto quì?" -continuò.

"Ho picchiato.. una persona."

"Immagino che tu non debba passare tutta la vita dentro." -disse.

"Dovrei uscire domani."

"Che fortuna. Io dovrò scontare cinque anni." -gettò il contenitore dentro ad un cestino di metallo.

Pensai a Stephen e a quanto male gli avrei fatto se lo avessi ritrovato davanti a me.
L'aveva minacciata con una pistola, quel figlio di puttana. Avrebbe potuto farle del male.
Sapere Tamara da sola, senza alcuna protezione, senza di me, mi terrorizzava. Lei era talmente vulnerabile; conoscevo bene la sua forza morale, ma lei era spaventata oltre ogni limite.
Solo altre poche ore e lo avrei ucciso.

Brandon:

La guardavo. Era inerme, innocua sopra ad un lettino d'ospedale. Non la conoscevo, ma volevo assolutamente che si svegliasse per guardare ancora i suoi occhi. Non ero a Londra per caso; dovevo tenerla d'occhio per conto di...qualcuno che ancora non avevo mai visto.
Dio, non sapevo nulla di quella ragazza, ma quanto mi intrigava. Non avrebbe dovuto, ma mi intrigava.
Mi voltai subito, quando la porta della stanza si aprì.
L'insegnante di storia entrò, seguita da un dottore.

"Piacere, sono il Dottor Herrera."

"Piacere, Brandon."

Il dottore si avvicinó a Tamara e guardó lo schermo accanto al letto, controllando il suo battito cardiaco.

Il professore della porta accantoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora