Il nostro "disturbo da stress post-traumatico"

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C'è un momento esatto, quello in cui crolli, in cui ti siedi e piangi tutto quello che il cuore in quel secondo di tempo suggerisce, sperando così di mandar via immagini, suoni, odori, tutto. Ma è solo una grande e grossa ILLUSIONE, perché ti ritrovi ogni dettaglio davanti agli occhi, sotto la pelle, come se lo stessi vivendo per la prima volta.

Chiamare Diletta in quell'istante mi era sembrata la cosa più naturale da fare.

<< Lyd, parla... non capisco così>>

La sua voce preoccupata e io che balbettavo appena qualche sillaba, circondata dai clacson festanti del Lungotevere, mentre me ne stavo accasciata sulle scalinate che portano sulla pista ciclabile, sì, proprio quella che reputavo adatta ad un film dell'orrore. Esattamente lo stato d'animo in cui ero precipitata, intanto intorno a me calava il sole. Roma si addormentava e il mio cuore con lei.

Diletta era arrivata subito a bordo della macchina, era un'emergenza, lo aveva capito; non era riuscita a farmi salire però

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Diletta era arrivata subito a bordo della macchina, era un'emergenza, lo aveva capito; non era riuscita a farmi salire però. Ero pietrificata su quelle scale, i muscoli non rispondevano ai comandi. Non riuscivo a scandire una parola che avesse un senso, non riuscivo a spiegare nulla. Che c'era da spiegare? A mala pena ricordavo cosa mi era appena successo. Lei mi aveva abbracciato, l'unico gesto di cui forse avevo davvero bisogno, ma che sentivo opprimente. Mi mancava l'aria, vedevo il cielo chiazzarsi di nuvole e invece era una bellissima notte stellata.

Didi era riuscita a farmi salire nell'autovettura solo un'ora dopo. In macchina regnava il gelo, la sua mano, che in teoria doveva essere sul cambio, teneva forte la mia mano, mentre i miei occhi fissavano il vuoto oltre i vetri dei finestrini. C'era sicuramente traffico, a Roma non manca mai soprattutto in certe zone del centro, eppure davanti a me non vedevo nulla. Sentivo la voce di Andrea e questo mi lasciava in uno stato comatoso impressionante, da cui credo di non essere ancora uscita. << Non lo so>>, lo aveva ripetuto talmente tante volte...

Erano le 21 ed eravamo sotto casa mia davanti al cancello, nessuna delle due aveva il coraggio di pronunciare alcunché. Avevo spento il telefono e aveva smesso di suonare, la radio non era mai stata accesa per mia fortuna. Volevo solo il teletrasporto, la possibilità di tornare indietro, non sapendo neanche di quanto di preciso. Qualsiasi cosa era meglio di tutto questo.

<< I tuoi saranno preoccupati, non ti sei fatta sentire per niente>>

La prima frase uscita dalla bocca di Diletta dopo minuti di silenzio, che non mi sembrava mai abbastanza. 

Un << non ho la forza>> sussurrato appena era bastato per sentire di nuovo le sue braccia strette intorno al mio corpo. Le avevo dovuto raccontare con quelle poche parole che mi venivano ciò che era accaduto. La verità più assoluta di tutte: non sapevo che fare, che dire, come farlo e come dirlo. Sarei voluta fuggire via, ovunque ma non qui. Il più semplice dei pensieri era un cappio al collo, che stringeva sempre più forte, rendendomi anche il solo respirare un'impresa.

Storia di una ragazza disordinatamente normaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora