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"It's a new dawn, it's a new day,
It's a new life for me,
And I'm feeling good."
FEELING GOOD – NINA SIMONE

ALASKA

Londra. Mi trovavo ufficialmente a Londra.

Non che non ci fossi mai stata, Sheffield non si trovava poi così lontano dalla capitale, ma le mie visite erano sempre state comunque troppo brevi e disgustosamente turistiche.

Ero finalmente a Londra da neo-londinese, ed ero lì per restare, per studiare, per vivere.

E per lavorare. I miei genitori avevano gentilmente pagato la prima retta dell'università e il primo affitto del piccolo appartamento che avevo scovato a Camden Town, ma, da lì in avanti, avrei dovuto cavarmela da sola.

Il salto nel buio, però, non mi spaventava. Ero pronta da tempo e non vedevo l'ora di mettermi alla prova.

Londra mi aveva chiamato ed io ero arrivata, persuasa che il suo grigiore intrinseco custodisse il mio destino. E forse lo custodiva davvero.

Infilai in bocca una cucchiaiata di cereali al cioccolato, facendo scorrere per l'ennesima volta lo sguardo sui muri spogli della mia nuova casa, un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Quel posto faceva davvero schifo, ma era uno schifo buono, uno schifo che mi apparteneva.

O, almeno, era quello che il mio buon umore mi faceva percepire; ero troppo eccitata e positiva perché qualcosa potesse non piacermi.

Mi sollevai da terra, dov'ero stata seduta fino a quel momento, per sciacquare la tazza nel mio lavello scalcinato. Con qualche mobile in più, un poster qua e là e un pizzico di disordine all'Alaska Evans, quel posto sarebbe diventato un piccolo gioiello.

Bigiotteria scintillante, la mia preferita.

Ma prima di dedicarmi alle spese folli per la decorazione del mio antro segreto, avrei dovuto trovare un lavoro. Erano giorni che lasciavo curriculum ovunque e ancora non mi aveva chiamato nessuno.

Tutto ciò non aveva avuto ancora il potere di gettarmi a terra, ma dovevo necessariamente trovare una fonte di guadagno che non fosse lo spaccio, dato che, primo, non avevo la faccia da spacciatrice, secondo, nel mio quartiere ne giravano già troppi.

Presi la metro al volo e scesi pochi minuti dopo alla fermata più vicina alla University of London, ovvero la mia futura università. Ero determinata a trovare un posto di lavoro nei paraggi, così da non dover correre da una parte all'altra della città con pochi minuti di scarto.

Camminavo da una mezz'oretta buona, quando vidi l'insegna luminosa del 'Dirty Shame'. Pensai immediatamente che fosse una sorta di night club, e ne aveva anche l'aspetto, ma quando vi entrai, mi resi conto che non era il termine che più gli si addiceva. O meglio, l'atmosfera leggermente cupa ricordava quella di un night club, ma quel luogo poteva rispondere benissimo anche alle etichette di pub, caffetteria e ristorante.

Il 'Dirty Shame' mi parve la perfetta sintesi dell'essenza di Londra. Eclettico ma ordinato, semplice ma raffinato, pronto ad accogliere silenzio o baldoria.

Mi guardai intorno, cercando qualche dipendente da importunare e a cui rifilare il mio curriculum abbastanza scarno, anche se puntavo più a colpire con la mia facciata da ragazza affabile e affidabile.

Scorsi movimento dietro al bancone e mi mossi in quella direzione: un ragazzo slanciato e ben piazzato stava diligentemente asciugando delle tazze di ceramica bianca. Avvertita la mia presenza, il barman alzò lo sguardo verso di me, regalandomi immediatamente un bel sorriso sornione che risaltava sulla pelle leggermente abbronzata.

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