20.2

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"Sometimes you gotta fall before you fly
We're gonna work it out."
WHO ARE YOU NOW? - SLEEPING WITH SIRENS


DANNY
Feci scorrere con delicatezza il dito sporco di tempera nera sulla tela. Le linee curve parevano completamente messe a caso, ma nella mia testa tutto aveva un senso: quei segni color carbone facevano parte di un progetto più grande, erano lì per un motivo.

Ai miei occhi già si presentava l'opera finita: due corpi stretti in un abbraccio proibito e sensuale che danzavano sulle note di una musica inudibile all'osservatore, ma instillata perfettamente nella mia mente. Le loro nudità coperte da un solo lenzuolo, condiviso, altro segno tangibile della connessione tra le due anime. I volti non si sarebbero visti, ovviamente, perché mai avevo visto un volto trasudare quell'ideale d'amore che mi riecheggiava nell'anima e, ahimè, era qualcosa a cui la mia fantasia non poteva sopperire.

I miei quadri parlavano sempre d'amore senza mai parlarne davvero.

Solo quando mi decisi a staccare il dito indice dalla tela, mi resi conto che il mio cellulare stava squillando.

"Rispondi a quel cazzo di coso, Dan?" mi chiese mia sorella, affondando poi la faccia nel cuscino. Si era addormentata sul divano guardandomi dipingere, come faceva quando eravamo bambini. Guardare le mie mani operose dar forma ai miei pensieri sulla tela, l'aveva sempre ammaliata e rilassata allo stesso tempo. Chiamava il mio lavorare la sua 'ninna nanna'.

La scorsa notte, per la prima volta dopo settimane, avevo sentito la solitudine attanagliarmi il petto. Niente Alaska o Mali-Koa che mi potessero salvare dai miei pensieri. Solo io e un grande vuoto nel petto.

Così, dopo aver abbassato la serranda del Dirty Shame, mi ero diretto, senza pensarci due volte, all'unico posto che avessi mai considerato come una casa, quella che avevo condiviso fino qualche anno prima con mia sorella e Ginger e dove ora vivevano loro due sole. Avevo sentito il bisogno spasmodico di ritornare a quell'ambiente famigliare, quel piccolo appartamento che aveva ospitato i nostri cuori traditi da due genitori a dir poco snaturati e medievali. Una sorta di rustico rifugio, un porto sicuro, permeato di ricordi felici, del sudore della fatica, del timore della povertà. Un luogo vivo.

Melanie non si era affatto stupita nel trovarmi accoccolato sul divano, la mattina seguente. Si era limitata a preparare degli waffle ai mirtilli anche per me e a porre sul tavolo consunto della cucina una tazza di caffè in più.

Nessuna domanda, solo una costatazione tanto dolce da scaldare il cuore: 'Le tele e i colori sono ancora dove li hai lasciati.'

Mi alzai dallo sgabello su cui mi ero appollaiato e afferrai il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans, attento ad usare la mano destra, dato che la sinistra era tutta impiastricciata di tempera. Odiavo usare i pennelli.

"Pronto?" risposi, tenendo il tono di voce basso, rendendomi contro solo poi di non aver guardato di chi si trattasse prima di schiacciare la cornetta verde.

"Daniel." Quella voce. Il mio nome completo. Il respiro leggermente affannato.

"Abbie", dissi, arido. Mi sorella scostò il viso dal cuscino, sollevandosi su un braccio e lanciandomi un'occhiata penetrante. I suoi occhi azzurrissimi sembravano volermi aprire uno squarcio sulla pelle: forse volevano soltanto superare la mia corazza.

"Ti disturbo?" Sì, decisamente.

"No, figurati", bugia.

"Daniel, io..."

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