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"It's all fun and games,
'Til someone gets hurt,
And I don't,
I won't let that be you."
STUCK IN THE MOMENT – JUSTIN BIEBER


MICHAEL

Aprii le palpebre quando sentii il letto rimescolarsi sotto di me.

Mi resi immediatamente conto di trovarmi accanto ad Alaska, perché il mio corpo, inconsciamente, aveva già avvertito la sua presenza.

Voltai il viso verso di lei, girata dall'altra parte: il lenzuolo lambiva i suoi morbidi fianchi e lasciava lascivamente scoperta la parte superiore del suo corpo.

Mi girai su un fianco, così da avere la possibilità di osservarla meglio.

I capelli castani erano sparsi sul cuscino, leggermente arricciati e scompigliati a causa della magia operata dalle mie dita la sera prima.

Sul collo si intravedeva il segno della voracità della mia bocca, marchio di ceralacca su carta candida e vellutata.

Il rossore del marchio, i capelli nocciola e l'intricato tatuaggio in inchiostro nero, contrastavano con la pelle lattea e vagamente angelica. L'ironia del paragone fece apparire un sorriso sulle mie labbra: in Alaska c'era ben poco di angelico. Me la figuravo più come un angelo caduto dalle ali carbone.

Impulsivamente allungai il dito indice a seguire le linee del tatuaggio, che si allungava dalla nuca fin oltre le scapole. Raffigurava una luna crescente di impronta gotica, attraversata da un'elegante freccia diretta verso una piccola volta di stelle impresse sul retro del suo collo. Il tutto era così armonico da trasformare in costellazioni anche i piccoli nei bruni che aveva disseminati per il corpo.

Il mio tocco disturbò il sonno di Allie, la quale si voltò verso di me con gli occhi serrati, avvicinandosi al mio corpo con un mugugno e rannicchiandosi contro il mio petto.

Afferrai il lenzuolo e coprii il suo corpo nudo, per poi posarle una mano sulla curva morbida del fianco, in un gesto protettivo.

In quella posizione, voltata verso di me, avevo sottocchio anche il suo viso: il trucco nero le aveva imbrattato le palpebre e la sua guancia era ancora ricoperta di cioccolato.

Mai prima di allora, però, mi ero davvero reso conto di quanto fosse bella.

Non 'bella' nel senso comune del termine: bella alla Alaska Evans. Un uragano. Un casino. Una pioggia di speranza.

Speranza.

'...Rovina la mia vita quanto vuoi, calpestami, deridimi, ma non provare nemmeno a rovinare la vita di Alaska.'
'Ci penserai da solo a farlo. Buon sangue non mente.'

Quelle parole pronunciate dalla bocca indegna di mio padre mi risuonavano nella mente da giorni, ormai. Un monito per il mio cuore, lasciato fin troppo libero dalla ragione. Repentino, cercai di accorciare il guinzaglio, di stringere il collare, ma il cuore insaponato scivolò fuori dalla mia portata.

Il panico mi avviluppò lo stomaco. Qualcosa non andava.

Perché non riuscivo a trovare la forza di allontanarmi da quella ragazza?

In quel momento avrei dovuto trovarmi davanti alla porta della stanza di mia madre, pronto a giustificare il mio comportamento del giorno prima, la violenza, il dolore, la fuga. Sentivo il bisogno di farle comprendere che non c'entravo nulla con mio padre.

Non ero come lui. O forse sì.

Io ero mio padre, mia madre, il piccolo Michael insicuro, la rock star, il tizio dai capelli colorati. Ero io, senza però esserlo davvero.

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