Capitolo 44

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Non so neppure quanti minuti siano passati, del resto dicono che il tempo nei sogni, così come negli incubi, sia del tutto indefinito.

Sono seduto per terra con le spalle appoggiate al muro e fisso un punto davanti a me, assolutamente apatico, come se quello che sta succedendo riguardasse qualcun altro.

Giulia è corsa via, dopo aver ascoltato la conversazione tra me e Jessica, senza neppure darmi il tempo di spiegarle. Ma cosa avrei potuto dirle, in fondo? Con che faccia avrei potuto fermarla e chiederle la forza di restarmi accanto, quando il mio futuro all'improvviso è diventato talmente incerto da sembrare scritto sulla sabbia. Così indefinito da non saperlo più interpretare.

Un figlio.

Non riesco a credere che diventerò padre.

Ho sempre pensato che sarebbe successo tra molto tempo, con una donna che avrei amato con tutto me stesso. E quel bambino di certo lo avrei voluto e cercato insieme a lei, provando l'euforia di aspettare un test positivo, la felicità del comunicarlo ai nostri genitori, sognando insieme il suo futuro.

Non così. Non da una relazione finita, e forse nemmeno mai iniziata sul serio.

Non proprio adesso.

La mia mente si rifiuta di pensare, come se non riuscisse a focalizzare niente che non sia il piccolo fascio di luce che filtra dalle persiane accostate e che svela i minuscoli granelli di polvere che danzano nell'aria. Quello è reale, la parete fredda dietro alla mia schiena è reale, così come il sangue che mi martella le tempie e sembra volermi mandare in frantumi le ossa. Tutto il resto mi appare come un'enorme allucinazione da sobrio.

Forse sto impazzendo, e da un lato lo spero, di certo non trovo parole con cui dare voce al mio tormento. Così rimango in silenzio, distaccato, sperando irrazionalmente che stringendo gli occhi un po' più forte io possa risvegliarmi tra le braccia di Giulia, come se fosse ancora stanotte, quando l'ho cullata per farla riaddormentare e intanto mi perdevo nel suo profumo. E che tutto questo incubo venga ricacciato indietro nella dimensione dei sogni dove merita di rimanere.

"Andrea, ti prego dì qualcosa" mormora Jessica, sedendosi accanto a me sul pavimento e tentando inutilmente di prendermi la mano, che tengo rigida accanto alla gamba, come se fosse quella di un manichino. Senza vita.

"Non era mia intenzione creare problemi...te lo giuro... – ripete per l'ennesima volta con gli occhi gonfi di un pianto che sta per esplodere – avevo solo bisogno..."

"Di cosa? Di fare la tua bella entrata ad effetto?" la interrompo a denti stretti.

Lei accusa il colpo e tace, tirando su col naso e sistemandosi il vestito intorno alle ginocchia, in maniera quasi maniacale.

Mi sento uno schifo anche verso di lei, vorrei provare il desiderio di abbracciarla e di stringerla forte, ma proprio non ci riesco, e le poche parole che mi escono dalle labbra sono ingiustamente sprezzanti.

È più forte di me, nonostante mi renda conto di sembrare un mostro. Ma in questo momento lei è la ragione della mia sofferenza, e l'unica cosa che vorrei è che sparisse dalla mia vista.

Intanto penso a Giulia, inghiottita in un istante dal buio delle scale, sconvolta e ferita, sola in una città che non le appartiene. La vedo mentre corre in metropolitana e si accascia sul seggiolino, svuotata di tutti i sogni, ferita da un destino che non può controllare, così come non posso farlo io.

Accettare.

È l'unica cosa sensata, ormai, l'unico modo per essere di nuovo padroni della propria vita, o di quel che ne resta.

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