Capitolo 29

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Il padre di Simone è in piedi fuori dalla stanza e ci accoglie con un sorriso stanco. Accanto a lui Mac, un po' meno cupo di qualche ora fa, ma ugualmente distrutto dalla nottata insonne.

Nel reparto adesso c'è un gran via vai di gente, una coppia giovane parla animatamente con un dottore, che scuote più volte la testa e mette una mano sulla spalla dell'uomo; una signora di una certa età si trascina per il corridoio con l'asta della flebo, sorride a tutti le infermiere che la salutano a loro volta. Chissà da quanto è ricoverata lì...

Infine un bambino che avrà circa otto anni esce correndo da una stanza, completamente calvo e con gli occhi segnati, inseguito da un clown con un fiore che spruzza acqua. Ride così forte che si girano tutti, persino la giovane coppia. Poi la donna allarga le braccia e lo accoglie stringendolo forte, nascondendo la preoccupazione dietro un sorriso dolorosissimo.

Questa è la vita che a volte dimentichiamo.

Un soffio, un alito di vento, delicato e sfuggente, che rischia di scivolarci tra le dita senza poterlo afferrare.

Giulia mi guarda con gli occhi lucidi e capisco che ha avuto il mio stesso pensiero.

La prendo per mano e mi avvicino a Edo.

"Pensi che sia meglio entrare insieme, o andiamo uno alla volta? – mi chiede lui, visibilmente agitato – non vorrei dire qualcosa di sbagliato da solo..." ammette abbassando lo sguardo a disagio.

"Penso che la cosa che più potrebbe ferirlo adesso sia l'essere trattato diversamente dal solito...– suggerisce Giulia guardandoci entrambi. – cercate di essere il più naturali possibile...anche se capisco che non sia facile..."

"Ragazzi, se volete adesso è sveglio... – ci dice la compagna del padre, appena tornata con un paio di toast presi al bar dell'ospedale – voi avete già mangiato?"

"Sì, grazie, siamo a posto" le rispondo con educazione, sentendo rivoltarsi nelle budella il mezzo tramezzino mangiato al volo a casa di Giulia.

Così prendiamo un bel respiro e varchiamo quella soglia, con un misto di emozioni differenti che si agitano nel petto. Giulia decide di restare fuori, e consentire a me e a Edo di parlarci da soli. Non ho bisogno nemmeno di dirle niente, mi da un bacio veloce sulla guancia e mi stringe forte la mano prima di lasciarmi andare.

Simone è seduto, con due cuscini a sostenergli la schiena e il braccio destro appoggiato sul letto, allineato alle gambe. Ha una flebo che fa cadere nelle sue vene un liquido trasparente, goccia a goccia. A sinistra, oltre il piccolo comodino su cui poggia un vaso di fiori azzurri, c'è una macchina che emette un suono pulsante e regolare, disegnando su un monitor nero un percorso luminoso fatto di picchi e cadute. Mai come in questo momento mi sembra una spudorata metafora della vita stessa. Su e giù, su e giù. Come un volo spericolato in parapendio.

"Mi hanno detto che ho un cuore da cavallo, lo sapete? – ci accoglie con un sorriso che coinvolge la bocca ma non raggiunge gli occhi – che ironia...e pensare che da bambino fui escluso dalle giovanili del Verona per un difetto congenito...Avrei potuto essere in serie A a quest'ora, chi può dirlo?...si vede che da piccolo il mio cuore non era abbastanza equino..." ride amaramente.

Sia io che Edo esitiamo. Sapere quel che è successo è ben altra cosa che vedere con i propri occhi.

Simone è pallidissimo, ha gli occhi infossati, le labbra riarse come se non bevesse da giorni. Nonostante il suo fisico allenato lo sentiamo ansimare leggermente dopo ogni frase che pronuncia, strascicando un po' le parole.

Lui se ne accorge.

"Non fateci caso, sono discretamente dopato al momento, non so nemmeno quanta roba ho in circolo, ho la testa che sembra una giostra, quindi se dico qualche cazzata...qualcuna più del normale, intendo, ignoratemi..." scherza mentre sposta il peso da un lato all'altro cercando una posizione più comoda.

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