Capitolo 61

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Non capisco cosa mi stanno dicendo, sono ancora stordito e continuo a tremare convulsamente. Mi hanno messo alla meglio sulle spalle una coperta e hanno cercato di farmi andare al riparo, ma io non riesco a muovere un muscolo.

Piantato con le unghie nel parapetto di prua continuo a chiedere di Giulia, a ripetere ossessivamente il suo nome, guardando verso il mostro che sta prendendo a schiaffi uomini e cose. Grido, piango, bestemmio verso il cielo e continuo a vomitare acqua finché non sento i polmoni svuotarsi e l'anima rovesciarsi in mezzo ai succhi gastrici. Loro mi guardano aggrottando la fronte, mentre continuano a urlarsi comandi per mettere la barca in sicurezza e uscire dall'occhio della tempesta.

Il più giovane tra i due uomini che mi hanno salvato dall'abisso si avvicina a me e mi dà una pacca sulla spalla, senza dirmi niente. L'altro invece è più sbrigativo.

"Oggi c'erano diverse barche in mare, magari l'hanno trovata gli altri...– mi dice senza guardarmi in faccia, probabilmente per non farmi capire che nemmeno lui ci crede troppo – adesso stiamo rientrando al porto. Quando saremo tutti al sicuro vediamo cosa fare, ok?"

Io scuoto la testa disperato, e continuo a guardare in mezzo alle onde ancora molto alte, mentre la pioggia sta leggermente diminuendo. Non scorgo più neppure il gommone, probabilmente colato a picco.

"Vi prego! Cerchiamola ancora, non può essere tanto distante da me!" urlo con la voce che mi si spezza in pianto, ma i due uomini mi guardano come se stessi vaneggiando.

"E' una follia! La tempesta è ancora troppo pericolosa e se non rientriamo subito al porto mettiamo a rischio anche la nostra barca. Aveva almeno il giubbetto di salvataggio la tua ragazza?" mi domanda uno dei due prendendomi per le spalle per scuotermi.

Annuisco. Rivedo le mie mani che le stringono le fibbie intorno al corpo, l'ultima volta che l'ho avuta vicino, prima del finimondo.

Io non so se una simile angoscia sia umanamente tollerabile. Il pensiero che, per la mia inesperienza e superficialità, le possa essere capitato qualcosa mi spacca in due la testa. Sento un dolore fisico fortissimo, sicuramente dovuto anche al trauma, ma che so perfettamente partire da dentro di me, dal mio cuore in pezzi, che non sa bene se abbia senso continuare a battere.

Il rientro in porto mi sembra un lunghissimo viaggio all'inferno. I pensieri più tremendi mi accompagnano per ogni metro di mare guadagnato alla tempesta, con un'agonia che non può essere spiegata a chi non l'ha mai vissuta, finché non intravediamo le prime luci che segnalano le banchine di Porto Empedocle. Ci sono barche danneggiate ovunque, uomini che corrono da una parte all'altra come impazziti, e vecchi pescatori che danno una mano ad ormeggiare gli ultimi piccoli pescherecci rientrati insieme a noi. La pioggia è ancora sferzante, ma nessuno sembra farci caso, abituati come sono a dover combattere con il mare in burrasca. Eppure anche nei loro occhi è ben visibile una preoccupazione anomala, come se in qualche modo anche loro fossero stati sorpresi da questo improvviso volgere del tempo.

Scendo insieme ai due uomini e mi guardo intorno smarrito. In mezzo a quella fiumana di gente che urla, si spintona, e lavora senza sosta non so cosa fare.

Mi sento assolutamente perso.

Un uomo con la cerata gialla e le mani come due morse di cuoio rugoso scuote la testa e ripete più volte.

"La peggiore, la peggiore! San Gerlando binidittu!"

Mi avvicino e provo a fermarlo.

"Sono rientrati tutti i pescherecci? Hanno portato qui una ragazza, per caso? La prego è importante!!" lo supplico con la voce resa ancora rauca dall'acqua di mare ingerita.

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