Prologo

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Ottobre 1986

"Questo sarà il mio papà?» si era chiesto, travolto dall'emozione e dalla speranza quando l'aveva visto entrare in soggiorno con tre grosse valigie e ben presto quella domanda si era trasformata in un sospetto che somigliava tanto ad un timore.

«Questo è il mio vero papà?»

Certo, era diverso da come se lo immaginava. Innanzitutto non gli somigliava per niente, e poi era freddo, distante e non gli diceva mai niente di carino. Non lo chiamava quasi mai per nome, preferiva appellativi offensivi come stupido, piagnucolone, femminuccia, idiota. 

Ma sicuramente era colpa sua. Lui era davvero uno stupido idiota, e anche un piagnucolone. Glielo diceva sempre sua madre, quando lo prendeva a ceffoni. In realtà erano solo schiaffetti, dati senza l'intenzione di fargli davvero male, ma lo ferivano dentro, dove lasciavano lividi che sembravano non guarire mai.

Quell'uomo non gli piaceva, comunque.
Non gli era mai piaciuto. A
 partire dall'aspetto. Alto, da doversi quasi chinare quando passava dalle porte, ma soprattutto enorme. Aveva braccia che sembravano prosciutti, ricoperte da una fitta peluria scura, e le spalle larghissime. Era grasso, a detta di sua madre Marta, ma a lui sembrava soprattutto grosso e muscoloso, come certe creature mostruose dei cartoni animati. Gli faceva pensare a uno degli avversari dell'Uomo Tigre, capace di sollevare agevolmente un uomo adulto e lanciarlo in aria come fosse una bambola di pezza.
Aveva i capelli neri, perennemente unti, due strani tatuaggi sul dorso delle mani tozze e pelose (una specie di croce che lui aveva già visto in una delle ultime pagine del libro di storia, quelle dove c'era un tizio buffo con i baffetti e il braccio teso), e spesso puzzava di vino o liquore.
Ma la cosa peggiore, quella che più lo inquietava, erano i suoi occhi. Scuri, quasi neri. Cattivi. Lo guardavano sempre con disprezzo, facendolo sentire ancora più stupido e sbagliato, e riuscivano a zittirlo o farlo piangere senza che aprisse bocca.

Da quando Marta l'aveva portato a casa tre mesi prima, presentandoglielo come "il suo fidanzato", l'aria era diventata pesante, irrespirabile. Erano finiti i bei tempi in cui poteva rifugiarsi nel lettone dopo un brutto sogno o semplicemente perché aveva voglia di coccole, e l'ora dei pasti non era più una festa e un momento sereno in cui raccontare alla sua mamma com'era andata a scuola o cosa avesse fatto mentre lei era al lavoro. Doveva sedere composto, parlare solo se interpellato, e mangiare tutto quello che aveva nel piatto, anche le verdure, anche il fegato rosolato che gli dava il voltastomaco solo a sentirne l'odore, fino all'ultima briciola, altrimenti tutto quello che lasciava se lo sarebbe ritrovato davanti al pasto successivo finché non fosse finito, spesso al posto delle lasagne o delle patate al forno che gli piacevano tanto. Al dolce aveva diritto solo se aveva portato a casa un voto particolarmente alto, se la sua stanza era perfettamente in ordine e se non si era rosicchiato le unghie.
E poi c'era la faccenda delle mani. Tommaso - così si chiamava quell'essere spaventoso e autoritario - non sopportava di vederlo tenere la forchetta o la penna con la sinistra e anche se di fatto lo lasciava libero di fare come voleva, spesso lo obbligava a posare la mano sbagliata sul tavolo e gli colpiva le dita con un mestolo.

«Si mangia con la destra!» urlava, colpendolo ancora se osava lamentarsi «Si scrive con la destra!» Ma lui si rifiutava di farlo. Sua madre non aveva mai avuto niente da ridire su quella sua stranezza ed evidentemente andava bene anche così. Anzi, in un paio di occasioni gli aveva spiegato che i bambini mancini erano i più creativi e fantasiosi, e lui creativo lo era davvero, con la mano sinistra creava disegni e dipinti a detta di tutti bellissimi.

***

Fissava la sbarra del passaggio a livello come ipnotizzato. Come aveva fatto a non capirlo prima? La soluzione a tutto era farsi travolgere dal treno che stava arrivando, annunciato da quel fischio che sembrava un richiamo. Nessuno badava a lui, un ragazzino di dieci anni in uniforme scout, con gli occhi velati di tristezza e  paura.
Pochi istanti, forse il tempo di provare dolore e poi sarebbe tutto finito.
All'avvicinarsi del convoglio si sporse per guardare in faccia la locomotiva che l'avrebbe ridotto in poltiglia. Qualcuno lo afferrò per la camicia, dicendogli che stava facendo qualcosa di pericoloso ma lui si divincolò come un'anguilla e sgusciò sotto la sbarra, cambiando idea all'ultimo secondo.
Non voleva uccidersi, voleva sfidare la Morte.
Attraversò i binari di corsa e inciampò in una buca dell'asfalto, finendo contro la sbarra dal lato opposto tra le urla di terrore della folla.
Un uomo dall'aria gentile lo aiutò a rialzarsi e gli chiese se si fosse fatto male.
Lui alzò lo sguardo, sorpreso. Si era aspettato insulti, un rimprovero, magari anche uno schiaffo, ma quello sconosciuto sembrava semplicemente e sinceramente
preoccupato.

«Sto bene, grazie» si affrettò a rispondere e si ricordò anche di sorridere, da giovanotto ben educato qual era. Gli doleva un po' la spalla che aveva urtato la sbarra metallica e aveva entrambe le ginocchia sbucciate e sanguinanti, ma in effetti stava benissimo. Era tutto intero.

«Quello che hai fatto è pericolosissimo» gli disse l'uomo. Aveva gli occhi scuri ma erano diversi da quelli di Tommaso. Erano
buoni.
Al suo fianco c'era una donna, pallida e stravolta

«Accompagniamolo a casa, ha le gambe tutte graffiate ed è meglio si disinfetti subiti. Abiti lontano, piccino?»

«No, ce la faccio da solo. Grazie.»

«Vuoi che chiamiamo i tuoi genitori?»

«No.»

«Dove abiti?»

«Alessio!» La voce di sua madre gli fece gelare il sangue. Si era fatta strada tra la folla e incedeva verso di lui. «Cos'è successo?»

«Io...sono inciampato.»

«Sei inciampato!»

«Sì...è stato...»

«Stavi correndo?»  Marta lo afferrò per un braccio e scosse la testa, contrariata «Guarda come ti sei combinato, santo Dio Alessio, ti avevo detto di aspettarmi in parrocchia!»

«Ti ho aspettato per mezz'ora, pensavo che ti eri dimenticata di me...»

"Che ti fossi, che ti
fossi, non che ti eri. La smetti di dire cazzate, tesoro? Perché avrei dovuto dimenticarmi di te?»

«Sei sua sorella?» chiese la donna sconosciuta.

«Sono la sua
mamma»  urlò Marta, infastidita «Non guardatemi così, lo so che vi sembro troppo giovane, ma sono una ragazza madre.»

Alessio annuì, stringendosi a lei.
No che non l'aveva abbandonato, pensò, rassicurato dal suo profumo. La seguì in macchina senza dire una parola. Aprì bocca solo quando stavano per entrare in casa.

«Ho attraversato con le sbarre abbassate e per non finire sotto il treno sono caduto.»

Il volto di sua madre si fece livido di rabbia.

«Sei uno stupido incosciente» gli disse, aprendo la porta e spingendolo dentro con ben poca grazia. Sarebbe caduto di nuovo, se non avesse sbattuto contro il corpo massiccio di Tommaso.

Alessio aveva solo dieci anni e non era mai stato picchiato dal suo quasi-patrigno, a parte qualche bacchettata sulle dita, ma sapeva che esistevano uomini che non si facevano problemi a malmenare i bambini, come accadeva nei film e nei cartoni animati. E quando venne afferrato per i capelli e trascinato lungo il corridoio buio, capì che sarebbe successo anche a lui.

«Guarda che ho sentito tutto, piccolo stronzo» gli disse Tommaso, mollando la presa e scaraventandolo contro il muro. Solo allora si accorse delle sue gambe escoriate. Diede un'occhiata ai propri pantaloni e vide che erano sporchi del suo sangue. Un poderoso ceffone raggiunse il visetto terrorizzato del ragazzino.

«Lo medico io, Marta» disse, sollevandolo e portandolo in bagno «Poi gli do il resto.»

Alessio era pietrificato. Brividi di terrore gli percorsero la schiena mentre Tommaso gli puliva le ginocchia con una spugna. Sapeva che non era finita lì ma non aveva il coraggio di darsela a gambe levate.

L'uomo aprì l'armadietto e invece del solito disinfettante prese una bottiglia di alcol denaturato.

«Brucia, eh?» Aveva un ghigno diabolico, sembrava divertito «Ma cosa cazzo piangi, femminuccia!»

Lo trascinò in camera e chiuse la porta.

«Sei un bambino stupido e lagnoso. 
Togliti la camicia e voltati contro il muro» ordinò, poi si sfilò la cintura di cuoio. Alessio esitò, lo guardò con occhi supplicanti.

«Togliti quella cazzo di camicia o ti faccio pentire di essere nato!» incalzò Tommaso, avanzando verso di lui. I suoi occhi erano due buchi neri pronti a inghiottirlo.

Alessio non aveva scelta. Rassegnato e spaventato, ubbidì.
Cinque cinghiate lo raggiunsero alla schiena, facendolo piangere e urlare per il dolore. In seguito avrebbe imparato a farsi picchiare senza lasciarsi scappare un lamento, per non dare soddisfazione al suo aguzzino, ma allora era solo un bambino.
Scioccato e sofferente, si rifugiò sotto il piumino, abbracciando il grosso orso di pelouche come faceva da piccolo, e si chiese se in fondo non fosse giusto così. Era stato uno stupido e meritava di essere punito.

Quello fu solo l'inizio.




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