52. Disforia

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«Penso che sia stato un errore non portarlo dallo psichiatra. Attacchi di panico o meno, non sta bene.»

«Lascia stare gli psichiatri, te lo riempiono di farmaci e tutte quelle menate sui traumi infantili, poi sì che diventa matto davvero.»

«Ma Tommy, l'hai detto anche tu che è malato. E se si facesse del male?»

«Lo fa per attirare l'attenzione. La colpa è tua, Marta, lo tratti come un bambino e lui se ne approfitta.»

«È anche colpa tua. Non si educa con la cinta e i pugni.»

«Io e i miei fratelli ne abbiamo prese più di lui ma mica abbiamo gli incubi, l'ansia e la sua voglia di non fare un cazzo. Tuo figlio è nato storto e tu hai peggiorato la situazione.»

Stavano parlando di lui, convinti che stesse ancora dormendo. Invece era rannicchiato ai piedi della scrivania, con le ginocchia strette al petto come quando da bambino si rifugiava in se stesso per proteggersi dal dolore, e un orecchio poggiato sul muro per ascoltare la conversazione che si stava tenendo in cucina.

«A volte penso che abbia le tenebre dentro. Parla sempre di morte, sangue, suicidi» continuò Marta. «A te sembra normale? Hai visto cosa disegna, no?»

«Troppi libri e film di paura. E poi ci si è messo pure quel prete psicopatico.»

«Tu sapevi che Padre Eustorgio era un mostro e non mi hai detto niente. Non va bene, Tommy.»

Si rimbalzavano le colpe l'un l'altro, sapevano fare solo quello.

«Ora è abbastanza grande da capire quello che è successo.»

«Ma continua a disegnare demoni e croci.»

«Se ci tiene tanto lo crocefiggo io. Vedi come cambia idea dopo una notte legato a due assi di legno.»

«Tommy, non scherzare.»

«Non sto scherzando.»

Non ne poteva più. Gli davano la nausea. Erano loro ad avere bisogno di uno psichiatra, non lui. Non erano in grado di fare i genitori, e lui aveva avuto la sfortuna si incontrassero, rendendo la sua vita un inferno.

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Da qualche giorno il suo buonumore era andato a farsi benedire. Erano tornati gli incubi, e non solo: si sentiva irrequieto, oppresso, avvolto da una coltre di angoscia. Tutto lo irritava, persino le risate degli amici o le attenzioni di Kornelia. Sentiva il bisogno di stare per conto proprio e al tempo stesso non tollerava la solitudine. Aveva ripreso a pensare troppo spesso al suicidio ma, arrivato al dunque, si fermava sempre perché non voleva morire, anzi. Lui voleva vivere, il problema era che non sapeva come si facesse. Nessuno gliel'aveva insegnato, e questo gli provocava una forte rabbia che faticava a non rivolgere contro il proprio corpo.

Due giorni prima era andato in biblioteca e aveva consultato dei testi di psichiatria. Dubitava di soffrire di qualche disturbo mentale, ma a furia di sentirsi dire che qualcosa nella sua mente non andava, aveva deciso di capire di cosa parlassero.
Dopo un pomeriggio di letture, con la testa piena di definizioni e termini nuovi non tutti chiarissimi, era giunto a qualche conclusione. Non era schizofrenico, non era psicotico, non aveva manie ossessivo-compulsive

Era arrivato anche a escludere di soffrire di un disturbo bipolare, dato che aveva scoperto che la depressione non era semplice tristezza e pessimismo, bensì una condizione in cui non si rispecchiava proprio. Lui non si sentiva mai senza forze, debole o demotivato senza un motivo apparente. Non aveva cali della libido (tutt'altro!). Non faceva fatica ad alzarsi dal letto (a meno che non si prospettasse una giornata noiosa), non trascurava l'igiene personale o il proprio aspetto, non aveva perso interesse per le proprie attività preferite (anzi, si rifugiava nella musica, nella lettura e nella pittura ogni volta che ne aveva occasione, trovandovi sollievo, seppur momentaneo, al Vuoto che cercava di risucchiarlo).

Non pensava di avere lo stesso disturbo che aveva spinto al suicidio il figlio di Jon perché più sentiva parlare di lui, più si convinceva di non somigliargli: Jeremy era stato un ragazzo timido, pacato, vessato dai compagni di scuola. Probabilmente i suoi tagli (il termine medico era condotte autolesive) erano tentativi andati a vuoto di uccidersi, un po' come lo stupido cocktail di vodka e Valium che si era preparato lui mesi prima.

La sua convinzione di non essere malato ma semplicemente diverso dagli altri si era rafforzata. Forse non era neanche sbagliato, in fondo se fosse stato capito e apprezzato avrebbe vissuto benissimo.
Ora però aveva di nuovo il dubbio di avere qualcosa che non andava, una forza oscura che si era impossessata di lui per distruggerlo.

Devo uscire e distrarmi, sto impazzendo.

Andò in bagno a darsi una rinfrescata e provò un senso di smarrimento di fronte alla propria immagine riflessa.

Sono davvero io?

Il ragazzo oltre lo specchio era gradevole. Aveva un bel colorito, gli occhi innocenti, i lineamenti regolari. Nulla in lui faceva pensare potesse essere nato storto o che avesse le tenebre dentro. Gli ricordava Manuel. Abbassò lo sguardo, si sciacquò il viso e diede un'altra occhiata al proprio riflesso, sperando che l'acqua gelata l'avesse riportato alla realtà. Niente da fare, era tutto come prima. Esasperato e spaventato, tirò un pugno allo specchio. Il lavandino si riempì di cocci di vetro e la sua immagine, invece che sparire, si distorse e si moltiplicò, come in uno dei suoi incubi.

«Sei impazzito?» La voce di Tommaso tuonò alle sue spalle, più terrificante dell'esperienza appena vissuta. «Che cazzo fai?»

Alessio si voltò di scatto e diede un pugno anche a lui. O meglio, ci provò, perché l'uomo riuscì a schivarlo e lo afferrò per i capelli, indignato da quel moto di ribellione.

«Non provarci mai più» sibilò la Bestia a pochi centimetri dal viso, immobilizzandolo col proprio corpo. Una zaffata d'alcol invase le narici di Alessio. «Sto cercando di aiutarti, non lo capisci? Ha ragione tua madre, non stai bene.»

«È colpa vostra, siete dei mostri.»

Affacciata alla porta del bagno, Marta iniziò a singhiozzare. «Pensi che io sia un mostro? Davvero pensi questo, tesoro?»

«Stai tirando troppo la corda, lo sai? Guarda cosa hai fatto a tua madre. Tu sei un mostro.»

Tommaso mollò la presa e lo guardò con gli occhi colmi di disprezzo. Alessio si sentì un verme. 

Stavolta hai ragione, pensò, e solo l'orgoglio gli impedì di dirlo ad alta voce. Andò ad abbracciare sua madre.

«Scusami» le disse, sforzandosi di non mettersi a piangere anche lui. «Non lo penso davvero, sono solo... Devo crescere, mamma, mi vergogno di esistere.»

Marta gli prese il viso tra le mani. Aveva un'espressione dolce, rassicurante, e gli disse che gli voleva bene, che non era colpa di nessuno, neanche tua bambino mio adorato, se stava male.  Per lui fu come una pugnalata al cuore. Meritava di essere punito, non consolato.

Sua madre gli medicò le nocche ferite con delicatezza estrema, gli fasciò la mano e gli preparò una camomilla. Vedendo che non riusciva a calmarsi, gli diede anche qualche goccia di ansiolitico. Tommaso non disse nulla. Rimase a guardarli in silenzio, con lo sguardo torvo, in evidente stato di agitazione. Di tanto in tanto armeggiava con la fibbia della cintura, come se volesse sfilarsela, e poi accendeva una sigaretta.

Nessuno si ricordò che era il giorno del colloquio e all'ora in cui avrebbe dovuto presentarsi negli uffici della Tele Qualcosa, Alessio si sdraiò sul letto, si mise le cuffiette del walkman sulle orecchie e si addormentò con la voce di Kurt Cobain che urlava «Stuprami. Stuprami amico. Stuprami. Stuprami ancora» ma che per il suo inglese mediocre  stava dicendo: Rapiscimi, rapiscimi amica.  Sognò di essere con Kornelia e di fare l'amore.

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Nota: Per chi non conoscesse il termine, per disforia si intende uno stato emotivo che può essere descritto come un profondo malessere caratterizzato da irritabilità, angoscia, pensiero negativo, propensione agli scatti d'ira e all'agito impulsivo. Può essere considerato una sorta di terzo polo dell'umore, a metà tra mania e depressione, e non è una patologia a sé ma sintomo di altri disturbi.

AlessioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora