42. Jonathan

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Morirò indossando una camicia bianca.
Bianca come il Vuoto angosciante a cui avrò ceduto. 
Immacolata e pura come io non sono. Amo i contrasti.
Una tela vergine da imbrattare con il mio sangue.
La mia morte sarà scenografica. Indimenticabile a differenza della mia insensata esistenza.

Faceva decisamente caldo per essere settembre inoltrato. Dopo qualche giorno di pioggia, vento e calo delle temperature, l'estate era tornata di prepotenza. Alle tre del pomeriggio di quell'assolata domenica, la colonnina di mercurio sfiorò i trentuno gradi. 

Alessio si fermò davanti al cancello al civico centodue della stradina che aveva percorso a passo sostenuto. Era accaldato, sudato, con i capelli (spuntati da poco, ma che mostravano ancora traccia della tinta disastrosa di tre mesi prima, tant'è che Ivanka era dovuta intervenire di nuovo) umidicci e appiccicati alla nuca. Cercò tra le file di campanelli il nome scritto sul biglietto da visita

Jonathan Sanderson

Il palazzo, elegante e rifinito, aveva una lucida cortina di mattoni scuri e balconi dalla ringhiera di legno che lo facevano somigliare a un residence di montagna, come quello in cui aveva soggiornato con sua madre durante la loro vacanza sulle Dolomiti. Il ragazzo gli rivolse una lunga occhiata, emozionato: stava per iniziare a lavorare, era alle prime righe di un nuovo capitolo della propria vita, un capitolo che non sarebbe stato tragico e doloroso come i precedenti. Non era neanche preoccupato di non esserne all'altezza perché tutto quello che gli era richiesto era una bella, anzi interessante, presenza, e aveva già superato la prova: Jonathan Sanderson l'aveva scelto tra tanti, tra i ragazzi che affollavano il baretto di fronte alla spiaggia, e sapeva già che aspetto avesse, l'aveva visto praticamente nudo e l'aveva guardato bene in faccia.

«Sali, terzo piano.»

L'uomo lo aspettava alla porta del proprio appartamento. Era sulla cinquantina, il classico americano con i capelli color sabbia, gli occhi chiari, alto e muscoloso. Indossava jeans corti al ginocchio, sandali e una camicia dalla fantasia floreale.

«Fa caldo, eh?» gli disse. Parlava un italiano perfetto, con solo un vago accento straniero. «Entra.»

Gli fece strada lungo il corridoio in penombra e lo fece accomodare in un soggiorno luminosissimo, arredato in stile minimal e, soprattutto, freschissimo.

«Cosa ti porto da bere? Coca Cola? Birra? Succo di frutta?»

«Succo di frutta va bene.» 

Spero non mi gonfi la pancia. 

All'improvviso, Alessio si sentì a disagio. Aveva saltato il pranzo per presentarsi al meglio, ma non era sicuro di non aver preso peso nell'ultima settimana in cui a passeggiate e nuotate aveva preferito libri e TV, e frequenti visite a frigo e dispensa. Da tempo aveva seri problemi a valutare con obiettività il proprio aspetto, visto che la sua percezione era viziata dall'umore del momento. E in quel momento, in preda a un'ansia crescente, stava iniziando a vedersi sempre più grasso e deforme.

Jonathan doveva essersene accorto, perché lo rassicurò.

«Stai benissimo, non hai niente di cui preoccuparti.»

«Perché hai scelto me?» Dargli del tu gli venne spontaneo e l'uomo non parve infastidito, nonostante avrebbe potuto essere suo padre (se non suo nonno, considerata la precocità con cui si diventava genitori a casa Speranza).

«Ti ho notato subito, sei esattamente il ragazzo che stavo cercando. Bello e tormentato.»

Non sai quanto.

«Da cosa lo vedi?»

«Dagli occhi. È difficile trovare un ventenne col tuo sguardo.»

«Ho lo sguardo di un vecchio? Comunque ho solo diciotto anni, non venti.»

AlessioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora