26. Bugie

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«Mamma, posso mangiare da solo, non ho cinque mesi.»

Con un'espressione incredula e infastidita, Alessio strappò ciotola e cucchiaio dalle mani di sua madre e ingoiò svogliatamente qualche boccone di pastina. Stelline cotte nel brodo, condite con un formaggino e una spolverata di grana. Quel piatto lo riportava alla parte piacevole della sua infanzia, a tante cene nella cucina di casa vecchia e a quando, a sette anni, aveva avuto la scarlattina e Marta l'aveva accudito riempiendolo di coccole e attenzioni, tanto da fargli sperare di non guarire mai. Da allora, ogni volta che si sentiva troppo a lungo trascurato e non amato, gli veniva la febbre alta.
Undici anni dopo, ben poco era cambiato. Ma essere imboccato gli sembrava assurdo e umiliante. In un angolo remoto della sua mente iniziò a prendere forma la consapevolezza che il comportamento di sua madre non fosse sano, ma ci sarebbe voluto ancora un po' di tempo prima di capire i danni che stava provocando.

«Scusami tesoro, per me sarai sempre il mio bambino.» Marta gli passò le dita tra i capelli arruffati, guardandolo con dolcezza. «Ti senti meglio? Mi sembra che non hai più febbre...»

«Sto bene, avevo solo bisogno di riposare un po'.»

«Senti ancora dolore?»

«Poco. È più fastidio, ormai.»

«Non dovrai più soffrire a causa sua.»

Lui non ne era del tutto sicuro. Aveva l'impressione che Tommaso non l'avrebbe lasciato mai in pace, anche se fisicamente assente. Gli squarci che gli aveva aperto nell'anima non sarebbero guariti con un sacchetto di ghiaccio e qualche giorno di riposo.

Aveva trascorso gli ultimi due giorni a letto, febbricitante e dolorante, tormentato da incubi orribili che si erano susseguiti senza sosta, in cui la Bestia tornava e lo torturava. Lo frustava a sangue, gli spezzava le ossa, lo pugnalava al cuore; lo stuprava ripetendogli che era solo uno scherzo, che stava giocando e non poteva farci niente se lui non aveva il senso dell'umorismo, povero stronzo patetico e malato. Il trillo del campanello, che da sveglio lo faceva sussultare, si insinuava anche nei sogni, in cui precludeva sempre al Grande Ritorno. Ben trovato, idiota. Cazzo o cinta?

Qualcuno suonò alla porta. Alessio smise di mangiare e impallidì. Il tempo che ci mise Marta ad andare ad aprire gli sembrò infinito.

Non può essere lui. Non può essere lui.

Era Manuel.
Sua madre lo abbracciò col solito trasporto (lo aveva sempre adorato e portato sul palmo di una mano, «il figlio che ogni madre vorrebbe», tanto che a volte lui aveva provato forti fitte di gelosia e invidia)e lo fece accomodare in cucina.

«Vuoi un caffè, Manu? O qualcosa di fresco? Un bicchiere di latte e menta?»

Alessio si sentì sollevato. Seppur in modo confuso, ricordava di averlo trattato male e vedere che era venuto a trovarlo, sorridente come sempre, gli riempì il cuore di gioia.

Non mi ha abbandonato.

«Va bene il latte, fa un caldo micidiale. Grazie.» Manuel diede ad Alessio un'amichevole pacca sulla spalla e si sedette di fronte a lui.  «Come va?»

«Tutto okay. Dopodomani torno a scuola.»

«Ma che ti è successo? La Wysniewski mi ha detto di non preoccuparmi, ma non ha voluto dirmi cosa avessi.»

«Ti ha detto solo questo?»

«Sì. Perché?» Lo sguardo di Manuel si fece sospettoso. «Che altro doveva dirmi?»

«Perché...» Alessio esitò, vedendo che sua madre li stava ascoltando con troppa attenzione. «Si era messa in testa fossi stato aggredito, ha visto i lividi sulle mie braccia. Voleva addirittura portarmi al Pronto Soccorso, ma poi l'ho convinta ad accompagnarmi a casa.»

«Infatti credevo ti avesse portato in ospedale.»

«Macché. Le ho spiegato che c'ero già stato.»

«Ma come hai fatto a cadere dalle scale?»

«Non mi ero accorto che le avevano appena lavate. Però non sono proprio caduto, mi sono aggrappato alla ringhiera e un vicino mi ha afferrato per un braccio.» Alessio si era ripetuto talmente tante volte quella storiella che a volte aveva il dubbio fosse vera.

«E la febbre?»

«Mamma pensa mi sia preso un'infreddatura facendo le docce gelate, di usare l'acqua calda con tutti quei lividi non avevo voglia.»

«Potevi almeno coprirti, dopo.» Marta lo assecondò, e mise sul tavolo due bicchieri di latte e menta. «Ragazzi, vado a comprare un po' di frutta. Non combinate guai.»

Per qualche minuto, i due ragazzi rimasero in silenzio. Erano liberi di parlare, ora, e non sapevano da dove iniziare. Fu Alessio a rompere il ghiaccio, impaziente di vuotare il sacco, deciso a raccontare almeno una parte della verità per alleggerire il peso che si trascinava dietro da anni.

«Mi ha spinto lui» iniziò, indicando con lo sguardo il braccio segnato dai lividi e sollevando per un istante la maglietta, nel dubbio che anche l'amico avesse intravisto qualcosa quando Kornelia aveva fatto lo stesso.

«Il tuo patrigno?»

«Sì. Avevamo discusso e sono uscito di casa per andare a fare un giro. Lui non voleva e mi ha seguito sul pianerottolo, mi ha dato un pugno nello stomaco e sono scivolato. Mi ha afferrato per un braccio per impedirmi di farmi tutta la rampa ruzzolando ma sono comunque caduto. Io... mi vergognavo a dirtelo, per questo non ho voluto venissi in ospedale.»

«Quindi ci sei andato...»

«No. La Wyz ha provato a convincermi, ma io l'ho ricattata.»

«Che cosa hai fatto?» Manuel sgranò gli occhi e scosse la testa. «Mi stai prendendo per il culo, vero?»

«Sono stato costretto. Non potevo correre il rischio che qualcuno scoprisse la verità. Lo capisci, questo?»

«Che cosa le hai detto? Per ricattarla...»

«Le ho detto che avrei raccontato a tutti che mi ha obbligato a baciarla e a farmi toccare. Ho i testimoni.»

«Tu e lei...? No, non ci credo.» Manuel scosse di nuovo la testa. In realtà credeva alle parole di Alessio e ora tutto gli era chiaro: dopo avergli detto di non preoccuparsi, Kornelia aveva aggiunto una frase che sul momento non aveva capito, ma che in qualche modo non l'aveva stupito. «Stai attento, il tuo amico ha problemi seri, e non mi riferisco alla sua salute».

«Invece mi credi, si capisce benissimo.»

«Quindi, il tuo patrigno ti mette le mani addosso e tu non vuoi denunciarlo?»

«È stata la prima e l'ultima volta. Mamma l'ha cacciato via. Per sempre

Quell'ultima bugia fece sentire Alessio ancora più straziato. Stava cercando, invano, di convincere anche se stesso che sua madre fosse intervenuta tempestivamente, quando la verità era che l'aveva lasciato in balia di un mostro per otto lunghissimi anni. E lui l'aveva anche ringraziata, come le volte in cui era intervenuta solo un attimo prima che le percosse di Tommaso lo uccidessero. Come quando l'aveva tenuto tra le sue braccia, rassicurandolo e piangendo per lui, dopo che il compagno gli aveva quasi spezzato due costole.
Quando non puoi avere il pane, sei grato per le briciole, avrebbe concluso anni dopo, parlandone con una psichiatra.

«Sono contento.» Gli occhi limpidi dell'amico si illuminarono. «Ora andrà meglio.»

«Va già meglio. Ancora non riesco a crederci, quando suona il campanello penso sia lui, ma adesso riesco a respirare. Vivere con lui voleva dire stare perennemente in apnea, discutevamo spesso, aveva delle idee del cazzo e non mi voleva bene.»

«Tua madre avrebbe dovuto mandarlo via prima.»

Alessio si fece forza. Doveva mentire ancora.

Dovrò farlo per sempre.

Doveva mentire anche al suo migliore amico, che sicuramente non gli aveva mai detto una bugia, perché non ne aveva bisogno.

«Non pensava sarebbe arrivato a tanto» disse, seguendo con le dita i contorni delle margherite stampate sulla tovaglia troppo corta. Una parte era stata tagliata perché si era macchiata di lambrusco, un anno e mezzo prima.



AlessioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora