76. Un mucchietto d'ossa

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La mattina del suo diciannovesimo compleanno, Alessio fece una fatica immensa ad alzarsi dal letto per fare pipì. I pochi passi che lo separavano dal bagno gli sembrarono un tragitto lunghissimo. 

Aveva mal di testa, le gambe deboli e sentiva freddo, quel freddo che l'assillava da giorni e che gli era penetrato nelle ossa, nonostante la temperatura si fosse notevolmente alzata, a giudicare dagli abiti che indossava sua madre.

Si lavò mani e denti con l'acqua calda, e decise di pesarsi. Non l'aveva più fatto da quando l'avevano costretto, un mese prima. La lancetta si fermò a metà scala, indicando il numero sessanta. Gli otto chili che avrebbe dovuto prendere, li aveva persi.

Andò in cucina, guidato da un flebile istinto di sopravvivenza, e si preparò un tè molto zuccherato, sforzandosi di mandare giù un paio di biscotti in attesa che l'acqua bollisse.

Avrò almeno due chili di roba addosso, si disse, spaventato all'idea di pesare poco più di sua madre. La sera prima era andato a dormire in jeans, maglione a dolcevita, camicia di flanella e felpa, troppo stanco per infilarsi il pigiama e troppo infreddolito per rinunciare a quegli strati dalla duplice funzione: scaldarlo e impedirgli di vedere com'era ridotto il suo corpo, un tempo forte e sano. A pranzo mangerò qualcosa, ora non ce la faccio.

Invece di tornare in camera, si accovacciò ai piedi del divano, di fronte alla porta finestra, per farsi accarezzare dai tiepidi raggi del sole primaverile. Gli occhi socchiusi, le mani congelate strette attorno alla tazza bollente, un plaid sulle gambe. Non era così che aveva immaginato i suoi diciannove anni. Che fine avevano fatto i suoi progetti, le sue speranze, il suo entusiasmo adolescenziale che lo faceva sempre rialzare dopo ogni caduta?

È cosi che si è sentito Gerardo?

Non riusciva neanche a piangere per la morte dell'amico, ma forse era giusto così. Forse avrebbe dovuto essere contento per lui, sperare avesse finalmente trovato la pace che gli era stata negata in vita. Non aveva esitato, Gerardo, non aveva aspettato di spegnersi come un mozzicone di candela, e il suo coraggio, la sua risolutezza, meritavano un premio.

No, non è vero. Lui meritava di vivere, la pace doveva trovarla qui. Si è ucciso perché voleva vivere e non ci riusciva, nessuno l'ha aiutato, nessuno l'ha capito. Neanche io.

Vista da vicino, assaporata un boccone alla volta, la morte si stava rivelando una grandissima fregatura. Alessio non era più sicuro di desiderarla, anche se odiava rimanere in quel limbo grigio da cui sembrava possibile solo fare un salto verso l'abisso e non tornare indietro, e anzi iniziava a temerla.

La morte non è un premio. È la fine di tutto.

Si fece forza e bevve una sorsata di tè, sperando che una volta entrato in circolo lo zucchero gli avrebbe dato sufficiente energia per alzare dal pavimento quel che rimaneva del suo culo e trascinarsi a mangiare qualcosa. A parte quei due biscotti che gli ballavano nello stomaco vuoto, era completamente digiuno da quasi tre giorni e le sue condizioni erano precipitate. Aveva smesso di mangiare del tutto quando la gioia di aver riabbracciato Manuel era stata sostituita da un senso di colpa terribile: se Gerardo non fosse morto, lui e l'amico non si sarebbero incontrati e ritrovati.

La tazza gli si disintegrò tra le dita e innescò un processo a catena che fece esplodere tutti i vetri e le superfici riflettenti dell'appartamento, evocando le temibili bestiacce pelose. Neanche stavolta le vide, ma sapeva che loro vedevano benissimo lui, anche se avevano un solo occhio, grande e nero, e si rassegnò all'inevitabile. Si coprì il viso con le mani e si lasciò divorare vivo.

Mezz'ora dopo, rientrando dal turno di notte, Marta lo trovò ancora raggomitolato sul pavimento, con lo sguardo perso nel vuoto.

«Alessio!» urlò, lasciando cadere la borsa e il sacchetto con la spesa, e si chinò su di lui, lo scosse con allarmata violenza. «Tesoro, svegliati. Svegliati, ti prego

AlessioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora