75. Ottovolante

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«Scappo al lavoro. Se hai bisogno di qualcosa, chiama Sofia. Ti ho lasciato anche il numero di Maurizio, è vicino al telefono.» ripetè Marta, come se non avesse detto più o meno le stesse parole appena un minuto prima. Usciva solo per andare al lavoro o per fare la spesa, ormai. Alessio non sapeva decidere se la cosa gli desse fastidio o lo facesse sentire finalmente amato.

«Non voglio più parlare con lui. Ha detto chiaramente che non è in grado di gestire uno come me.»

«È pur sempre uno psichiatra, tesoro. In attesa di trovarne un altro puoi parlare con lui se hai bisogno di supporto. E fai merenda. Mezzo barattolo di integratore, e se hai voglia mangia anche qualcos'altro, ma senza esagerare. Intesi?»

«Okay.»

Alessio lanciò un'occhiata desolata alla fila di lattine che incombevano minacciose sul ripiano accanto al frigo. Odiava quei bibitoni a detta di sua madre miracolosi, ma sapeva che se si fosse rifiutato di berli rischiava di finire in ospedale e lì glieli avrebbero fatti ingoiare a forza infilandogli un tubo nell'esofago (oltre a riempirlo di psicofarmaci, probabilmente, e a costringerlo a raccontare i suoi segreti a uno psichiatra che l'avrebbe dichiarato fuori di testa, marchiandolo a vita come malato di mente).

Ci penserò poi. Ora devo finire quello che ho nel piatto. Devo mangiare, devo nutrirmi, devo sforzarmi.

Inforcò un rigatone e se lo infilò in bocca. Non sembrava neanche cibo, era piuttosto una medicina, sebbene non vomitevole come i terribili supplementi nutrizionali al gusto Orrore&Vaniglia o Incubo al Cacao.
L'euforia mattutina che l'aveva portato a consumare con gioia la prima colazione decente da mesi, era già svanita. Ma doveva mangiare, doveva nutrirsi,  doveva sforzarsi, se voleva stare meglio.
Prima di piombare in quella che Marta aveva definito anoressia (una strana malattia che lui credeva colpisse solo le ragazzine convinte di essere troppo grasse), non aveva mai pensato che un giorno si sarebbe trovato a vivere il momento dei pasti come una tortura.

Venti minuti dopo, il piatto era quasi vuoto. Aveva fatto un ottimo lavoro e meritava una ricompensa. Un buon caffè, l'unica cosa che gli andava davvero di ingurgitare, e una sigaretta. Un rituale da consumare sul balconcino, per godersi il bel sole marzolino. Era una giornata splendida, col cielo terso e una temperatura piacevole. Una giornata che sarebbe piaciuta tantissimo a Gerardo.

«Non vedo l'ora che finisca quest'inverno di merda. Appena arriva la primavera andiamo a correre a Villa Pamphilj, ho rimesso su sette chili.» Me l'aveva detto di nuovo, prima di tornare a casa, e io non ho capito che era una bugia, un modo di farmi credere non avesse intenzioni suicide-

«Quand'è che hai deciso che non avresti visto finire l'inverno? Cosa ti ha fatto cambiare idea?»

Si portò una mano alla gola, chiedendosi se avrebbe mai avuto il coraggio di fare quello che aveva fatto l'amico. Lo stesso ragazzo che una volta aveva guardato i tagli sulle sue braccia incredulo e aveva dichiarato che no, lui no, lui non sarebbe mai riuscito a farsi del male. Mentiva o davvero non immaginava che presto avrebbe cambiato idea?

«Perché non mi hai detto niente? Non eravamo amici

Fu allora che tutto crollò di nuovo. Per quella parola di cinque lettere che iniziò a rimbalzare da un lato all'altro della sua testa, provocandogli un dolore indicibile. Amici.

Gli amici non mentono, non tradiscono. Non abbandonano. Gli amici ti rimangono accanto anche quando non sei divertente e brillante e se son loro a star male, ti chiedono aiuto, perché si fidano di te. Manuel aveva trascorso con lui tutta la mattina, avevano condiviso le loro sofferenze trovando un po' di conforto l'uno nell'altro. Manuel si era preoccupato per lui e si era scusato per non averlo cercato per due mesi. Non si era fermato a pranzo solo perché aveva appuntamento con una psicologa, e gli aveva promesso che l'avrebbe chiamato una volta tornato a casa.

AlessioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora