Capitolo 2

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Per i primi tempi per noi fu davvero difficile, soprattutto per me: trascorremmo sei settimane senza vedere nostro padre.

Non che ci mancassero i suoi abbracci, visto che non aveva mai palesato il suo affetto nei nostri confronti - sempre che questo affetto fosse mai realmente esistito -, ma rimpiangevamo le serate trascorse tutti insieme come una vera famiglia nella sala proiezioni a seguire i documentari sulla politica che a nostro padre piacevano tanto.

Forse questo completo distacco affettivo derivava in gran parte dal suo lavoro: era un ambasciatore dell'ONU e, come tale, era più il tempo che trascorreva all'estero che quello che passava tra le soffocanti mura di una villa con tre piani e sette ettari di giardino, munita di campo da tennis, piscina interna ed esterna e un piccolo parco giochi all'aperto per noi piccole belve.

Allo scadere delle sei settimane, ci fu una divertente riunione di famiglia davanti a un giudice civile. oggetto: affidamento della prole. Pensavo che fosse un termine ricercato per intendere che i miei genitori avevano riacquistato fiducia reciproca e volevano tornare finalmente insieme. Forse la parola prole mi era suonata quasi carina, eppure non andò esattamente così.

Un uomo corpulento dalla folta barba bianca costrinse i miei genitori a scegliere quali figli tenersi, un po' come se fossimo stati trofei da mettere in bella mostra in una teca di vetro nel salotto. Dopo più di due ore di seduta psicoterapeutica, in cui chiamava spesso in causa noi tre figlie senza però ottenere risultati evidenti, affidò noi figlie a nostra mamma e lasciò a mio padre il diritto -che poi si trasformò in dovere- di andare a trovare le figlie una volta al mese.

Così accadde per i primi tempi, ma già dal quarto mese mio padre cercò tutte le scuse più disparate per evitare di rivederci: una volta disse che l'ambasciata americana in Canada lo aveva invitato a una riunione per discutere della politica; un'altra volta era stato a Milano per una sfilata di moda, lui che aveva sempre odiato le copertine delle riviste di moda; l'ultima volta, invece, un suo amico russo aveva organizzato una pescata di salmoni lungo i più bei fiumi del Paese e mio padre aveva prontamente accettato, preferendo a noi i cuccioli di orso bruno di cui aveva paura anche solo vedendoli nello zoo di Cleveland Metroparks.

Insomma, mio padre non era un tipo molto attaccato alla famiglia e, a parte lui, non avevamo altre figure maschili da seguire. In quel periodo, comunque, riposi le speranze in Marshall, un ragazzo che conoscevo da quando avevo tre anni: suo padre era ambasciatore delegato con il mio ed era il nostro unico vicino di casa, visto che insieme le nostre ville coprivano circa quindici ettari delle campagne di Cincinnati.

Marshall era l'unico con cui parlavo volentieri di ogni cosa; lo consideravo il mio fratello maggiore - aveva due anni più di me, come mia sorella Demetria - e per questo mi proteggeva sempre. Quando venne a sapere del divorzio dei miei genitori, si precipitò a casa mia e dovetti dissuaderlo dalla folle idea di picchiare mio padre; non che io non avessi apprezzato il gesto, ma perché Marshall a quel tempo era un decenne tutt'ossa, che dimostrava all'incirca otto anni.

A nove anni e mezzo iniziai a stabilizzarmi, aiutata dal costante supporto del mio migliore amico: ormai non mi svegliavo più nel cuore della notte in preda a incubi orrendi, ma riuscivo a riposare sei ore filate e avevo anche ricominciato a parlare con i miei compagni di scuola. Finché una bella mattina di febbraio in cui tutto era coperto di soffice neve, io - che avevo dieci anni - e mia sorella Evelyn sgattaiolammo fuori fino a casa di Marshall, perché sapevamo che lui adorava la neve quanto noi.

Giunti lì, però, oltre ai piedi ci si congelò anche la lingua: il portone della casa di Marshall era spalancato e grossi scatoloni erano disposti in mucchietti lungo tutto il viale d'ingresso. All'interno i mobili erano coperti con teloni bianchi. Alcuni signori vestiti completamente di bianco stavano caricando tutto su enormi camion - bianchi anche loro - con su scritto: "Aeroporto internazionale di Cincinnati".

Evelyn chiese a uno di loro dove fosse Marshall e quello, mettendo in mostra i denti gialli, rispose con un sorriso sghembo: - Su un aereo. Sono partiti questa mattina. -

Lo guardai con le sopracciglia aggrottate. Marshall non mi aveva detto che avrebbe trascorso le vacanze invernali lontano dall'Ohio.

- Quando torna? - chiesi a mezza voce.

- Non tornerà, ragazzina. - Rispose senza guardarmi, caricando sul furgone un grosso scatolone.

Sentii mia sorella protestare, ma non riuscivo a decifrare le sue parole: tutto intorno a me era indistinto, ovattato come la neve.

Marshall se ne era andato senza salutarmi. Lo aveva sicuramente fatto di proposito, visto che, anche provando a chiamarlo, il suo numero non era mai raggiungibile. Ora che avevo reciso tutti i ponti con il mio migliore amico - e forse l'unico amico mai avuto - mi sentivo triste e vuota.

Imparai presto che il dolore non esiste solo nel mondo dei grandi: nel giro di due anni ero stata dimenticata da mio padre e dal mio migliore amico.

Da quel giorno a scuola non parlai più con nessuno. Non riuscivo più a vedere il lato positivo della vita: tutto quello che facevo non aveva più senso. Iniziai a leggere, nascondendo le lacrime tra le righe dei miei libri preferiti. Appena tornavo da scuola, mi chiudevo in camera, facevo in fretta i compiti e mi serravo nella lettura, dimenticando tutto e tutti.

Trascorsi in quello stato semivegetativo sette anni, mentre le mie sorelle crescevano e si diplomavano. Intanto io guardavo la mia vita scivolarmi addosso, eppure non sentivo nulla.

E fu così che, all'età di sedici anni e mezzo, mia madre si convinse di avermi diagnosticato una rara forma di depressione adolescenziale. Okay, forse un po' depressa lo ero davvero, ma non c'era bisogno di chiudermi tre pomeriggi a settimana in uno scantinato buio di una casetta nel centro di Cincinnati con altri ragazzi che, come me, avevano avuto la sfortuna di vivere la propria vita nel momento sbagliato o, peggio, con le persone sbagliate.

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