– Si pregano i gentili passeggeri di allacciare le cinture. – mi svegliò la voce nell'altoparlante. – Sono le ore 6:00 e siamo in dirittura d'arrivo, pronti per l'atterraggio. –
Fin da piccola avevo sempre adorato gli aerei: mi eccitava il modo in cui una massa così pesante fosse in grado di librare in cielo come un uccellino. In quel momento invece sentii una fitta allo stomaco quando le ruote dell'aereo toccarono terra. Tutti i passeggeri applaudirono e io non potei fare a meno di sorridere: ero a Roma.
Con l'eccitazione che usciva da tutti i pori, per poco non dimenticai sull'aero il mio bagaglio a mano. Le persone intorno a me continuavano a spingermi avanti e indietro, come se fossi stata un cuscino antistress su cui scaricare la propria adrenalina.
Cercai più volte di allungare il braccio per prendere la mia valigia, ma il mio metro e sessantacinque di altezza non era d'aiuto in situazioni caotiche come quella. Nel tentativo di recuperare i miei averi, pestai i piedi a tre persone – o almeno sperai che fossero tre persone diverse e non lo stesso piede tre volte.
Mi sentivo sballottolare in tutte le direzioni, spinta da americani e italiani che imprecavano contro le agenzie di volo, la maggior parte di loro gesticolando con convinzione. Io non ebbi da lamentarmi: tutto sommato ci avevano portato cena, colazione e alcuni adorabili biscotti per tutta la durata del volo.
Quando alla fine – dopo sgomitate a destra e spintoni a sinistra – riuscii a recuperare il mio trolley, notai che la massa di gente stava via via diminuendo.
Mentre camminavo impaziente lungo lo stretto corridoio dell'aereo, continuavo a pensare al momento in cui avrei messo piede sulla pista di atterraggio. Dopo tutto quello era comunque territorio italiano, no?
Quando finalmente toccai il suolo, tirai un sospiro di sollievo. Tay sarebbe svenuto all'istante al mio posto... Ricacciai indietro il pensiero, come anche quella strana sensazione di vuoto nel petto.
"Solo due settimane" continuavo a ripetermi. Ma il fastidio era già passato: ero ufficialmente a Roma.
Trascorse quasi un'ora da quando scesi dall'aereo a momento in cui, ritirata la mia pesante valigia, mi incamminai verso una porta con scritto "Exit – Uscita". Mi fermai di colpo al pensiero che in pochi istanti avrei rivisto l'uomo che mi aveva abbandonata nove anni prima e non mi aveva mai mandato neanche una cartolina riciclata d'auguri per il mio compleanno.
Mentre il mio cervello mandava impulsi nervosi incontrollabili ovunque nel mio corpo, mi resi conto di essermi bloccata esattamente al centro dell'uscita solo quando sentii qualcuno venirmi addosso.
Evitai di cadere sulle valigie solo perché lui mi prese al volo per un braccio. Quando riacquistai l'equilibrio, notai che quel qualcuno che mi aveva travolto era un bel ragazzo con gli occhi verdi cristallini, i capelli neri come la pece – che portava più lunghi da una parte e quasi rasati dall'altra –, una maglietta aderente che gli metteva in risalto i muscoli possenti delle braccia e del torace, due labbra formose che... stavano mimando qualcosa.
Mi riscossi e gli chiesi velocemente di ripetere ciò che stava dicendo. Quando capì che ero americana, il ragazzo iniziò a parlare perfettamente inglese, o meglio, con uno spiccato accento americano.
– Non dovresti fermarti qui. – mi rimproverò con un sorriso. – Di solito la gente non guarda dove cammina. Qualcuno avrebbe potuto farti male. –
Non riuscii a formulare una frase di senso compiuto, quindi ringraziai di non avermi "investito facendomi male" e, riprese le mie valigie, uscii da quella situazione imbarazzante.
Appena varcata la soglia, però, mi pentii all'instante di non essermi rifugiata sotto uno dei nastri trasportatori per non incontrare mio padre. Sperai con tutto il cuore che lui fosse in ritardo, ma con mio grande rammarico vidi un uomo sulla cinquantina – troppo simile a mio padre per non essere lui – venirmi incontro tenendo per mano un bambino che non avevo mai visto – troppo simile a mio padre per non essere suo figlio.
Feci un passo indietro e non so per quale motivo riuscii a mantenere l'equilibrio. Si era rifatto una vita, evidentemente, e aveva rimosso tutto quella che aveva vissuto fino a nove anni prima. O magari quel piccoletto era un povero orfano che mio padre aveva adottato, segno di come era cambiato con il tempo. Sì, questa ultima ipotesi mi sembrava la migliore.
Mio padre mi si avvicinò lentamente, lasciandomi il tempo di squadrarlo da capo a piedi: indossava una camicia bianca infilata nei pantaloni; si intravedeva di profilo la pancia che aveva messo su nell'ultimo periodo; il suo sorriso – sicuramente falso – metteva in risalto alcune rughe agli angoli della bocca e vicino agli occhi; i suoi capelli marroni erano stati quasi totalmente rimpiazzati da ciocche bianche. Per il resto era l'uomo di sempre – portamento fiero, camminata lenta e ponderata e sguardo fisso.
L'istinto mi disse di tornare da dove ero venuta, ma mi feci forza stringendo il ciondolo che mi aveva regalato Tay e cercai di sorridere. Il massimo che però riuscii a fare fu una smorfia tirata.
– Benvenuta a Roma! Come sei cambiata! – esclamò mio padre lasciando per un attimo la mano del ragazzino in un gesto che avrebbe dovuto abbracciarmi, se solo non mi fossi spostata in tempo. Lui, dopo un primo momento di esitazione e di incredulità, abbandonò le mani lungo i fianchi e mi presentò l'esserino che aveva accanto e che intanto gli si era avvinghiato a una gamba.
– Audrey Whitney, ti presento tuo fratello Filippo. –
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Just friends
Teen FictionAudrey è una ragazza con un passato difficile: da piccola è stata abbandonata da suo padre e dal suo migliore amico, situazione che l'ha costretta a costruire intorno a sé un muro di sfiducia e incertezza e che pian piano l'ha spinta nel baratro del...