Capitolo 20

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Rientrai in casa. Filippo stava vedendo la televisione seduto in mezzo ai suoi genitori. Provai una fitta di gelosia e, dopo averli degnati di un cenno del capo, mi chiusi in camera.

Poco dopo sentii bussare alla porta.

– Posso entrare? – chiese Lucia, senza aspettare che le dessi il permesso. Si sedette sul mio letto e io dovetti ritirare le gambe affinché non ci si sedesse sopra. – Allora, come hai trascorso la giornata? –

Cercai un modo carino per dirle che non volevo che si impicciasse dei miei affari. – In realtà sono molto stanca... –

– Oh. Ma dai! – alzò la voce di un'ottava e mi si avvicinò ancora di più, mentre il suo decolleté balzava da destra a sinistra. – Solo qualche dettaglio! –

– Dettaglio? – ripetei. – Non c'è nulla da dire a riguardo. –

Lucia sembrò delusa. – Non avete spianato la strada, allora? –

– Spianato la...? – sbattei le palpebre confusa. – Non c'è niente tra noi, perché non volete capirlo?! –

– Okay, non ti scaldare. Beh, aspetterò. –

Non mi lasciò il tempo di ribattere che se ne andò dalla mia camera, chiudendosi la porta alle spalle. Prima di andare a letto mandai un messaggio a Tay in cui gli raccontavo la mia giornata. Lui rispose quasi subito.

"La vecchia arpia allunga gli artigli. Ma deve stare attenta: il mio raggio di sole sa essere accecante." Sorrisi e mi addormentai, stringendo al petto la collana che mi aveva regalato il mio migliore amico.

Trascorsi la giornata seguente in compagnia di Lucia, mio padre e Filippo. Mi portarono a visitare San Pietro e rimasi piacevolmente colpita nel vedere quanto fosse grande e bella la basilica, piena di opere di tutti i generi. Andando avanti, mio padre mi spiegava come erano nate alcune opere e chi era il loro artefice. Pranzammo in un piccolo ristorante al centro, dove mangiai una pasta con il ragù eccezionale. effettivamente era vero almeno uno dei tanti stereotipi italiani: avevano il culto per il cibo. Il cibo buono, intendo.

Il pomeriggio prendemmo la metro – che era davvero pienissima – e ci fermammo a villa Borghese, un enorme spazio verde dove molte persone venivano per fare jogging, portare a spasso i figli, divertirsi con gli amici o, più semplicemente, godersi quel panorama stupendo.

Lucia aveva portato un grosso telo rigorosamente rosa su cui sederci. Lei e mio padre si stesero a prendere il sole, mentre Filippo mi guardava contento.

– Vuoi, uhm, fare qualcosa? – gli chiesi titubante. Lui annuì soddisfatto. – Cosa? – chiesi alla fine, dato che il piccoletto non accennava a volersi muovere.

Solo in quell'istante la piccola belva corse via, tirò fuori un pallone leggero dalla borsa di Mary Poppins della mamma e me lo passò sorridendo.

– Okay. – lo guardai un po' confusa. – Possiamo giocare con la palla. –

Pensavo che sarebbe stato qualcosa di pesante e noioso, invece mi divertii molto: Filippo era ancora troppo piccolo per conoscere le regole della pallavolo, quindi ci passavamo semplicemente la palla da una parte all'altra bloccandola a ogni passaggio.

Dopo diversi minuti anche altri bambini poco più grandi di Filippo si unirono a noi. Pian piano mi allontanai dal gruppetto e feci una passeggiata lì intorno. C'era davvero molta gente e alcuni di loro si erano attrezzati in modo spaventosamente unico: avevano portato piccole sedie da campo, grossi recipienti per il cibo – alcuni munendosi di borse frigo per gli alimenti freddi – e oggetti di vario genere per rendere più piacevole una giornata all'aperto.

Passeggiai per un po', finché non arrivai a una fontana. Era piuttosto grande e bassa, con al centro delle pietre fintamente sovrapposte da cui uscivano zampilli d'acqua. Mi sedetti sul bordo, abbastanza largo da essere comodo, e mi rilassai guardando la gente che passava.

Rimasi lì diversi minuti, poi tornai indietro, conscia del fatto che, se fossi arrivata troppo tardi, Lucia mi avrebbe data per dispersa e, in preda al panico, avrebbe chiamato le autorità italiane per trovarmi.

Quando raggiunsi mio padre e la moglie, notai che Filippo era stato isolato dal gruppetto di ragazzi che era giocavano con il suo pallone. Mi avvicinai al bambino, che era rimasto in disparte.

– Perché non giochi con loro? – gli chiesi, poggiando le mani sulle ginocchia e piegandomi leggermente il avanti per stare più o meno a livello con il suo volto.

Lui non mi guardò. – Loro sono un gruppo di amici e non mi passano la palla. –

Lo presi quasi inconsciamente per mano e raggiungemmo insieme i ragazzini. Mi infilai nel cerchio e, quando mi passarono la palla, la bloccai. Uno di loro mi guardò male.

– Ehi, stavamo giocando a pallavolo! Se non sei capace vattene. –

Lo guardai storto, tenendo la palla poggiata contro il fianco. – Questa palla non è vostra e non avete il diritto di escludere il proprietario. –

Indicai il bambino accanto a me con un gesto della mano e lui si strinse ancora di più alla mia gamba. Il bambino antipatico scosse la testa. – Non sa giocare, fa schifo come giocatore di pallavolo. –

Alzai un sopracciglio. – Anche voi fate schifo come giocatori di pallavolo, ma ora siete qui per divertirvi, non per fare una partita seria. –

Il bambino alzò le spalle, sfidandomi con lo sguardo a contraddirlo. – Non giochiamo con chi non sa rimandare una palla. –

�v.

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