Capitolo 25

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– Tutto bene? – mi chiese Marshall, avendomi visto saltare non appena mi aveva toccato il braccio.

Annuii. – Stavo solo... pensando. –

Lui non sembrava molto convinto, ma mi diede comunque ragione. Camminammo ancora un po' in silenzio e alla fine Marshall parlò ancora.

– Mi dispiace per prima. –

Mi fermai e lo guardai confusa. Del resto si era solo preoccupato per me. – Non devi scusarti. –

Lui fissò la strada, infilando le mani nei passanti dei jeans corti. – Invece sì. Non avevo visto quell'uomo che ti si avvicinava finché non hai urlato. Appena ho capito che eri tu... ho perso le staffe. Non sono riuscito a contenermi. Se non mi avessi fermato molto probabilmente lo avrei picchiato lì, sulla metro. –

Non riuscivo a capire se ero affascinata da quella sua rivelazione o spaventata. – Mi hai aiutato e per questo ti ringrazio. Non preoccuparti. –

Lui mi guardò per un momento. – So che non ti fidi di me, ma sappi che per me sei ancora quella ragazzina che avrei protetto con la mia stessa vita. Non ti ho mai dimenticata e ora che posso di nuovo trascorrere del tempo con te non voglio che nessuno rovini questi momenti. –

Era ufficiale: mi aveva sconcertata. Lui si affrettò a rimediare. – Non prendermi per pazzo, okay? Vorrei solo trovare un modo per risanare quel bellissimo rapporto che c'era tra noi. –

Ripresi a camminare, parlando quasi tra me e me. – Sai che non è possibile. –

Lui mi raggiunse con un paio di lunghe falcate. – Per favore, Audrey. Dammi almeno un'altra possibilità. –

Scossi la testa, frustrata per la piega che la situazione stava prendendo. – Tornerò in Ohio tra tre giorni, Marshall. Cosa speri di ottenere? –

Lui si piazzò davanti a me, facendomi arrestare di scatto per non finirgli addosso. – Il tuo perdono. –

Deglutii, improvvisamente a corto di parole. Marshall sembrò sul punto di dire qualcosa, quando Filippo catturò la nostra attenzione, indicando con un piccolo dito un pezzo di giardino sulla nostra destra. – Andiamo lì! C'è un sacco di spazio per mangiare e possiamo metterci all'ombra. –

Marshall mi guardò e io alzai le spalle. Per me ogni posto andava bene. Volevo solo evitare di riprendere la conversazione da dove avevamo lasciato.

Ci dirigemmo verso un piccolo sentiero che portava a un grande spiazzo verde. C'era già qualche persona che si era accomodata sotto l'ombra ristoratrice degli alberi. Alcuni avevano cestiti da picnic da cui trasbordavano cibi di ogni forma e dimensione, altri invece si erano accontentati di avere con sé un telo colorato con cui stendersi insieme ad amici o fidanzati.

Marshall poggiò la sua enorme busta sul prato, srotolò un grosso telo blu e ci fece accomodare, comportandosi come un gentiluomo dell'Ottocento. Al suo comportamento, Filippo scoppiò a ridere e Marshall si finse deluso.

– Buonuomo, credete forse che il mio comportamento sia poco appropriato alla situazione? – chiese lui, facendo una reverenza con un cappello immaginario.

Filippo scosse la testa. – Finché mi dai da mangiare, mi va bene qualsiasi comportamento. –

Scoppiammo entrambi a ridere e alla fine, dopo esserci tolti le scarpe, ci accomodammo sul telo e ammirammo il cibo che Marshall aveva portato: una scodella di pasta con pomodori, olive nere, mozzarella a cubetti e basilico; prosciutto e melone, che scoprii essere uno dei cibi per l'estate più apprezzati in Italia; una torta di mele soffice e invitante.

Fissai Marshall con l'acquolina in bocca. – Wow, sei stato bravissimo! –

Lui si crogiolò nei complimenti, poi grattò la base della nuca con una mano, mentre con l'altra si teneva poggiato a terra. – Ti ringrazio del complimento, ma devo ammettere che non sono io il cuoco: è stata mia madre. Io, da solo, non riuscirei neanche a cuocere un uovo sodo. –

Scossi la testa, inizialmente incredula, ma alla fine sorrisi. Lui mi sorrise di rimando e sembrò colpito dalla mia reazione. Marshall prese dei piattini di plastica e ci passò un po' di pasta a testa. Assaggiai il primo piatto e dovetti ammettere che era davvero buonissimo: non era come il resto della pasta che avevo mangiato fino a quel giorno, ma lui l'aveva definita "pasta fredda", un altro degli alimenti che l'Italia aveva bollato come DOC, cioè, come mi aveva spiegato Marshall, "Dopo Ondate di Calore."

Effettivamente in quei giorni a Roma faceva talmente caldo da rendere impossibile il mangiare qualsiasi piatto fumante e l'idea di una "pasta fredda" mi allettava molto.

Mangiammo prosciutto e melone come se fosse stato il cibo più buono del mondo: era fresco e per qualche istante ci toglieva di dosso la sensazione di essere perennemente accalorati e assetati. Il dolce, però, era effettivamente il migliore che avessi mai mangiato: la torta era soffice e buonissima.

– Ti piace? – mi chiese Marshall, addentando un pezzo di torta.

Io annuii. – È davvero ottima. –

Lui guardò Filippo, sorridendo. – Ovvio che sia ottima, vero ometto? Ogni cibo fatto in casa qui in Italia è ottimo. –

Il bambino gli diede ragione e, per la fine del pranzo, aveva ingurgitato tre fette di torta. Quando chiese la quarta, Marshall lo guardò scuotendo la testa. – Mi dispiace, piccolo, ma tua mamma mi ucciderà se continuo a rimpinzarti di dolci. –

– Ma io sono magro. – protestò lui, incrociando le braccia e mettendo il broncio.

Marshall si alzò si scatto, prese Filippo per le ascelle e lo alzò senza fare il minimo sforzo. Se lo mise in spalla e iniziò a correre per il giardino, senza scarpe, urlando: – Allora posso farti volare sul prato! –

Li sentii ridere per cinque minuti abbondanti. Intanto io misi a posto tutto ciò che avevamo tirato fuori dalla busta per il picnic e gettai l'immondizia in un secchio poco lontano. Quando Marshall tornò con il bambino ancora in braccio, lo lasciò sul telo e mi guardò quasi stupito.

– Non c'era bisogno che lo facessi. – disse, fissando il telo pulito.

Io alzai le spalle. – Volevo rendermi utile. –

Lui annuì e si stese su un lato del telo, incrociando le mani dietro alla nuca e mettendosi un cappello in testa per coprirsi dal sole. Filippo gli fu subito sopra: gli tolse il cappello, aspettandosi una qualche reazione, ma quando notò che Marshall non accennava ad aprire gli occhi, gli si stese sopra, a pancia sotto, fissando il ragazzo con il mento poggiato sul petto di Marshall.

Lui aprì un occhio, poi l'altro, e sbuffò vedendo il bambino sopra di lui. – Ecco che era quel peso che mi sentivo addosso. Non era una mosca, eri tu! –

Il bambino sorrise e Marshall parve illuminarsi. Era evidente che adorava Filippo, forse perché non aveva mai avuto un fratello minore a cui badare.

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