Capitolo 38

8.2K 371 18
                                    

Il giorno seguente convinsi Raf che mi sentivo poco bene. Lui mi mandò a quel paese, borbottando qualcosa che non riuscii a capire. Quando incrociò il mio sguardo, si dileguò senza aggiungere una parola: era perfettamente cosciente del fatto che, se non volevo essere disturbato, non c'era anima viva che avrei voluto vicino.

Trascorsi il giorno seguente a bere birra, guardare partite di calcio della stagione precedente e fissare il telefono in attesa di una risposta ai nuovi messaggi che avevo mandato ad Audrey.

La sera Raoul e Raf tornarono accompagnati da due ragazze – due sorelle, probabilmente, da come si somigliavano – quindi io mi rintanai in camera mia, senza però riuscire a prendere sonno.

I giorni successivi non andò meglio: trascorrevo il tempo sempre allo stesso modo, tra birre, divano e rimorsi della coscienza. Spesso sognavo di tornare al giorno in cui i miei genitori mi avevano detto che ci saremmo trasferiti in Italia.

– Che bello, papà! – avevo detto io. – L'Italia è così lontana! –

Mio padre aveva fatto un piccolo gesto con la testa nella mia direzione. Quella era una delle poche volte che si rivolgeva a me direttamente, quindi avrei dovuto capire che c'era qualcosa sotto.

– Aspettami qui. – ordinai. – Vado a informare Audrey! –

Lui mi prese per un braccio. – Tu non vai da nessuna parte. –

– Ma come farà a sapere che deve fare le valigie se non glielo dico? –

Lui mi aveva guardato come se fossi stato una scarafaggio schiacciato sul suo costoso pavimento di moquette. – Lei non lo deve sapere, ce la vedremo suo padre e io. Non verranno con noi, Marshall. –

Lo avevo implorato tutto il giorno di lasciarmi parlare con lei, almeno per salutarla, ma non c'era stato verso di smuoverlo dalla sua decisione: eravamo partiti qualche giorno dopo, senza che io potessi salutare la mia migliore amica.

Il mio telefono squillò e per poco non caddi dal divano per la paura. Risposi alla chiamata.

– Pronto? –

– Finalmente ti sei svegliato! – urlò Raf dall'altra parte del telefono. C'era molto rumore di sottofondo. – Vestiti, che tra poco ti vengo a prendere. –

Storsi il naso. – Perché mai dovresti venirmi a prendere? Non devo andare da nessuna parte. –

Lui sbuffò. – Stupido ragazzaccio che non sei altro. Ti sei già dimenticato della partita? –

Balzai subito in piedi. – La partita! –

Quella che dovevamo giocare contro la squadra di Gregori. Quando io andavo a scuola, ero capitano della squadra di calcio della scuola; Raoul e Francesco erano i miei compagni di squadra e non c'era partita in cui il pubblico non facesse la ola in onore del nostro spirito di squadra: eravamo talmente affiatati che sapevamo perfettamente dove e come il compagno ci avrebbe passato la palla.

Nei cinque anni di superiori, la mia squadra si era sempre piazzata al primo posto nelle classifiche delle gare che facevamo tra le varie scuole di Roma. L'ultimo anno fu il peggiore: non c'era più affinità tra noi, tanto che spesso sbagliavamo anche i passaggi più elementari.

Quando Raoul e io ci eravamo diplomati, Francesco era rimasto a scuola e aveva preso il mio posto di capitano. Quel giorno avremmo giocato un'amichevole tra la mia squadra – composta dai ragazzi che giocavano con me a calcio per sport – e quella di Francesco – che altro non era che la squadra della scuola.

Raf ridacchiò, sentendo come il mio tono era cambiato radicalmente da un secondo all'altro. – Dieci minuti e sono lì. –

Riattaccò senza darmi tempo di aggiungere altro. Mi fiondai in bagno, feci una doccia veloce per spazzare via il sudore della notte e i pensieri che mi distraevano. Era importante che fossi completamente concentrato: anche se detestavo ammetterlo, la squadra di Gregori era abbastanza forte; niente in confronto alla mia, ovviamente, ma anche lui aveva avuto i suoi momenti di gloria.

Just friendsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora