Capitolo 9

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Credo che, dopo la presentazione, mio padre avesse detto qualcos'altro, ma la mia mente si congelò all'istante. Quando poi ripresi in controllo del mio corpo, zampilli di pensieri folli mi attraversarono come una scarica elettrica. Arrivai in fretta a una conclusione: quel mostriciattolo era realmente suo figlio - da non considerare mio fratello -, quindi mio padre aveva rimpiazzato la sua famiglia con un'altra.

Calò per un attimo il silenzio, mentre la gente intorno a noi continua va ad abbracciarsi felicemente; qualcuno piangeva anche. Anch'io avrei voluto piangere, ma di certo non per la gioia.

Dovetti dare una pacca sulla spalla al bambino. Lui, sempre attaccato a mio padre, continuò a fissarmi le mani finché non arrivammo al parcheggio. Più volte ero sul punto di chiedergli per quale strano motivo continuasse a fissarmi le mani in quel modo così morbosamente irritante, ma lasciai correre.

Arrivati in macchina - un'auto sportiva con il tettuccio ribaltabile - mio padre mi invitò a sedermi davanti. Mi accomodai mentre lui allacciava con cura la cintura di sicurezza al piccoletto, seduto sul sedile posteriore. Provai una fitta di gelosia per quella bestiolina: io non avevo mai ricevuto tutte quelle attenzioni da mio padre, neanche quando ero molto piccola. Forse perché lui aveva sempre voluto un figlio maschio e, con l'arrivo della terza femmina, magari aveva deciso di "sperimentare" altrove alla ricerca dell'erede tanto ambito.

Impiegammo quasi tre quarti d'ora per arrivare a casa di mio padre e il viaggio sembrò durare un'eternità. Lui continuava a tartassarmi di domande - Come va a scuola? Due giorni fa è stato il tuo compleanno, vero? Come stanno le tue sorelle? E tua madre? - a cui io rispondevo con un cenno del capo o, se proprio necessario, con monosillabi.

Dopo una mezz'ora di straziante interrogatorio - su aspetti della mia vita che a lui neanche interessavano - era il momento di concludere la conversazione. Guidò spedito lungo l'autostrada, mentre io cercavo di non farmi prendere da una crisi di nervi. Capii che quello non era il posto per me, ma me ne ero resa conto troppo tardi.

In Italia erano le sei del mattino, eppure le strade erano già piene di automobilisti che continuavano a suonare il clacson e a gesticolare senza sosta.

Quando pensai che ormai non sarei stata più in grado di tenere gli occhi aperti, finalmente mio padre svoltò in un parcheggio sotterraneo e ci fece scendere - prendendo rigorosamente in braccio il piccoletto con una mano e trascinando la mia pesante valigia con l'altra. lo invece portavo il trolley con sopra il beauty case.

Arrivammo davanti a un enorme ascensore pieno di specchi e notai solo in quel momento la mia faccia scavata dalle occhiaie. Sgranai gli occhi: il fuso orario mi aveva stravolta tanto quanto la "dolce notizia" di avere un fratellastro. Mi sistemai i capelli legandoli in una traccia da un lato.

- Non serve che ti pettini. - disse una vocina melensa sotto di me. - Sei bellissima così come sei. -

Sbuffai e ricominciai a passarmi le dita tra i capelli. Quel piccoletto mi aveva fatto perdere il ritmo.

Mentre l'ascensore saliva al quinto piano, rifeci la treccia tre volte. Alla fine, sconsolata, lasciai perdere e sistemai i capelli piegando la testa e tentando di renderli più vaporosi. Del resto saremmo stati solo io, mio padre e il ragazzino, quindi... perché preoccuparsi tanto dell'aspetto?

Usciti dall'ascensore mio padre tirò fuori una chiave con una forma piuttosto strana con cui aprì la porta del suo appartamento. Non so dire quale cosa mi sconvolse di più: la grandezza dell'attico o la presenza di una donna in vestaglia.

- Benvenuta, tesoro! - gridò lei con una voce troppo acuta. Feci solo in tempo a sbarrare gli occhi, che una furia bionda - troppo gialla per essere un colore naturale - piena di bigodini mi si lanciò addosso e mi strinse in una morsa dolorosa.

Quando alla fine si staccò, la donna si presentò con quella voce che avevo già imparato a odiare, parlando con un accento prettamente italiano e inserendo qua e là parole americane.

- Piacere, darling. - disse con un sorriso sbilenco. - Sono Lucia, moglie del tuo daddy. Come stai? How are you? - Continuava a gesticolare per farmi capire ciò che diceva.

Capii comunque quello che stava dicendo, anche se i gesti erano una fonte enorme di distrazione. Moglie. Era la moglie di mio padre. Era la donna per cui lui aveva ricominciato da zero. Era colpa sua se lui aveva azzerato la sua vita e ricominciato tutto come se niente fosse.

Repressi l'istinto di aggrapparmi al suo collo e strapparle tutte quelle ciocche ossigenate una per volta. sorrisi inclinando la testa e mi presentai a mia volta. Optai per l'americano, dato che, da quanto avevo avuto modo di intuire, capiva poco e niente della mia lingua. Il che sarebbe potuto essere un vantaggio per me.

- Nice to meet you. I'm Audrey Whitney. It will be a pleasure to start ripping your dead hair... -

- Audrey Whitney! - mi bloccò mio padre, scandalizzato.

Ma la tipa, con un sorriso, chiese scioccamente: - Cosa ha detto? -

Ero sul punto di farle capire il senso della frase gesticolando come lei, ma mio padre mi interruppe ancor prima di cominciare. - Ha detto: "It will be a pleasure to start living with you", cioè "Sarà un piacere iniziare a vivere con te". -

Lei sorrise sornione. - Che figlia gentile hai, amore mio! - e andò a stampare un bacio bavoso sulle labbra di mio padre.

Girai su me stessa, presi le valigie e feci per andarmene, ma la donna, dopo essersi staccata da mio padre, disse: - Oh, cara, vuoi andare nella tua stanza? Uhm... you... room...? -

Annuii. Almeno così non l'avrei più vista fare la gatta morta con mio padre. Non che la cosa mi interessasse, ovvio. Mandò il piccoletto a mostrarmi la camera. Appena girai l'angolo del corridoio, intravidi con la coda dell'occhio la gatta che si strusciava contro il padrone.

Evitai per un pelo di investire il bambino che, giunto davanti a quella che doveva essere la mia stanza, mi guardò con un sorriso e ricominciò poi a fissarmi le mani. Borbottai un veloce "grazie" e mi chiusi in camera, gettandomi su un letto coperto solo con un lenzuolo rosa. Sarebbero state le due settimane più lunghe della mia vita.

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