Capitolo 24

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Marshall si girò nella mia direzione, sorridendomi mestamente. Io ricambiai il sorriso timidamente e poco dopo ci ritrovammo in strada, camminando verso la fermata della metropolitana. Non appena finimmo di vidimare i biglietti, Marshall ci incitò ad allungare il passo.

– Veloci! – urlò lui, tenendo ben stretto Filippo con una mano e reggendo nell'altra una pesante busta piena di cibi e bevande per il picnic. Rimasi un attimo ferma sul posto nel vedere i muscoli delle sue braccia contrarsi rapidamente, poi scossi la testa, maledissi i miei ormoni da diciassettenne e li seguii in mezzo alla folla.

Scendemmo rapidamente la rampa di scale che ci separava dalla metropolitana e ci gettammo nel primo vagone disponibile. Le porte si richiusero di scatto dietro di noi pochi secondi dopo. Scoppiammo a ridere, mentre un gruppo di turisti con un spiccato accento tedesco ci guardava male.

– Tutto bene? – chiese Marshall a Filippo.

Il bambino annuì. – Facciamolo ancora! –

Marshall sorrise, ma scosse la testa. – Se tua madre lo venisse a sapere, morirebbe di crepacuore. –

Il bambino scoppiò a ridere, ma non ribatté. Evidentemente anche lui era cosciente di quanto la madre fosse strana, iperprotettiva e schizzata.

Ringraziai mentalmente chiunque avesse installato l'aria condizionata sulla metro: essendo metà agosto, il caldo afoso di Roma era insopportabile e ognuno cercava di stare il meno attaccato possibile alle persone che aveva intorno per poter respirare un po' di aria fresca. Fresca per così dire, visto che il ricambio d'ossigeno avveniva solo quando si aprivano le porte per far scendere e salire altri passeggeri.

Feci un mezzo passo indietro in direzione delle porte aperte per prendere una boccata d'aria, quando sentii qualcuno toccarmi una gamba. Mi ritrassi all'istante, tornando al mio posto caldo.

Quel qualcuno, però, mi seguì e si posizionò proprio accanto a me. Alzai lo sguardo: era un uomo di mezza età, con i capelli brizzolati e le sopracciglia folte; indossava una maglietta bianca chiazzata ovunque di sudore ed emanava un odore fetido. Lui mi guardò e mi fece un sorriso sghembo; notai che gli mancavano almeno quattro denti e i restanti erano marci e neri.

Mi girai dall'altra parte e lui ne approfittò per avvicinarsi ancora, strusciandosi contro di me. Gli urlai di staccarsi, ma ottenni il risultato opposto. Cercai anche di spingerlo via, ma non mi dava ascolto. Ero circondata da decine di persone, ma nel caos generale nessuno sembrava accorgersi di cosa stesse succedendo.

Finché non vidi Marshall entrare nel mio campo visivo. Mi si posizionò proprio di fronte, cingendomi la vita con un braccio.

– Che credevi di fare? – gli domandò Marshall con sguardo assassino, prendendo l'uomo per la maglietta e sbattendolo contro la porta chiusa della metro. Intorno a noi calò il silenzio. – Adesso ti insegno un po' di buone maniere.

L'uomo spalancò gli occhi, evidentemente terrorizzato, e cercò di divincolarsi dalla stretta ferrea di Marshall. Alla fine, riuscito nel suo intento, si fece strada tra la gente accalcata, pestando i piedi dei presenti e urlando in modo concitato.

Marshall si slanciò in avanti per seguirlo. Io lo trattenni per un braccio e lui mi fissò con occhi spiritati. – Quello stronzo la deve pagare. –

– Tranquillo. – Gli sussurrai. – Sto bene. Se n'è andato. –

Lui scosse la testa. – Io lo ammazzo. –

Rimasi sorpresa dal suo comportamento. Da piccolo non era mai stato un bambino che andava alla ricerca di risse, ma ora mi ricordava molto la banda di ragazzi che viveva poco lontano da Cincinnati, conosciuta nel Paese come la "gang degli spacconi"; era facile entrare a far parte del gruppo: bisognava avere i muscoli di un personal trainer e il cervello di una gallina.

Gli passai una mano sul braccio, augurandomi che bastasse per farlo calmare. – Sei la mia guida a Roma, Marshall. Evita di finire in prigione, okay? –

Lui mi fissò ancora con quei suoi occhi verdi, profondi come l'oceano. Repressi l'impulso di abbracciarlo e sussurrargli all'orecchio che andava tutto bene. Alla fine annuì e mi ringraziò senza un apparente motivo.

Si chinò verso Filippo. – Tutto bene? –

Lui sbuffò, incrociando le piccola braccia sul petto, anche se non era molto capace. – Smettila di ripetermelo sempre. – Lo rimbeccò il bambino.

Marshall spalancò la bocca. Effettivamente quel piccoletto aveva stoffa da vendere.

– Mi hai mostrato come scacciare i bambini a che nella mia scuola mi prendono in giro. – Continuò Filippo con aria seria. – Adesso devo solo fare i muscoli come te. –

Marshall sorrise e io provai un senso di sollievo senza rendermene conto.

Scendemmo dalla metropolitana due fermate dopo, a Flaminio. C'era molta gente, tanto che io e Marshall prendemmo per mano Filippo – io da una parte e lui dall'altra – e uscimmo insieme all'aperto. Marshall ci indicò un grande cancello appena alla nostra sinistra.

– Quella è l'entrata per villa Borghese. – Ci spiegò. – È una delle ville più belle di Roma. –

Entrammo nell'enorme parco, dove il paesaggio era stupendo: c'era una lunga strada alberata dove passavano persone in bicicletta, strani pedalò con cinque posti dotati di tenda per il sole, gente con i pattini, con i cani e con i passeggini.

Ai lati della strada c'erano grandi spiazzi di giardino che ospitavano diverse panchine e, ogni tanto, qualche fontanella. Filippo si mise a camminare sul bordo rialzato che divideva la strada dal giardino, mentre io e Marshall procedemmo uno accanto all'altra sotto l'ombra dei grossi pini.

Sorrisi involontariamente vedendo Filippo cercare di mantenere l'equilibrio su quella sottile striscia di cemento. Provai un po' di vergogna per aver nutrito un po' d'odio nei confronti del bambino fin dal primo momento, senza mai aver neanche provato a parlare con lui. Nostro padre ci aveva abbandonate per costruirsi una nuova vita, ma Filippo non aveva nessuna colpa. Mi tornò in mente quella volta in cui al centro di riabilitazione il signor Holliday mi aveva chiesto come avrei reagito se avessi scoperto me mio padre avesse voluto trascorrere del tempo con me: ancora adesso non lo sapevo per certo, ma credevo fermamente che la mia presenza fosse stata una sorta di imposizione di mia madre a mio padre. Del resto lui non ci aveva mai parlato della moglie e del figlio in tutti quegli anni e non ci aveva neanche mai fatto gli auguri per nessuna festività, che fosse Natale o il nostro compleanno.

Mi riscossi dai miei pensieri solo quando Marshall mi toccò il braccio. Voltai velocemente la testa nella sua direzione e lui spalancò gli occhi per lasorpresa.

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