Capitolo 12

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La mattina seguente mi svegliai con un leggero torcicollo. Mi stiracchiai e controllai l'ora sul telefono: erano quasi le dieci. Mi alzai controvoglia, non prima di aver mandato un messaggio di buongiorno a Tay. Scostai le tende, ma le richiusi subito dopo: il panorama mostrava solo decine di palazzi tutti uguali.

Restai un po' in bagno, poi tirai fuori dalla valigia tutti i vestiti che Tay aveva diligentemente piegato e ne sgualcii la metà mentre li sistemavo nell'enorme armadio che occupava mezza parete. Impiegai quasi mezz'ora per dividere i capi per tipo, poi tolsi dalla valigia tutto il resto e riposi il trolley sotto il letto. Ammirai soddisfatta il mio lavoro, poi dovetti spalancare le finestre della camera per il gran caldo.

Rifeci il letto e mi sedetti su una sedia girevole davanti alla scrivania. Dovetti ammettere che era comoda. Girai più volte sulla sedia mentre chiamavo mia madre via Internet. Quando notai che non mi rispondeva, mi ricordai del fuso orario e riattaccai velocemente. Sperai di non averla svegliata ma, una decina di minuti dopo, il mio telefono vibrò. Risposi immediatamente.

- Ciao, mamma. Non volevo svegliarti. Devo ancora adattarmi al fuso orario. -

Lei sorrise. - Non preoccuparti, piccola mia. Tutto bene? Ti piace Roma? -

Annuii, poi mi ricordai che lei non poteva vedermi. - Tutto bene, grazie. Roma è bellissima. Ieri sono andata a fare un giretto e mi sono anche persa, ma penso di aver capito come muovermi. -

- Sono così fiera di te, Audrey. - la sentii sospirare.

- Stai bene, mamma? - le chiesi.

- Oh, sì. Certo. È solo che sono un po' stanca. -

- Allora ti lascio. Ci sentiamo in un altro momento, okay? -

- Okay, tesoro. Buon divertimento. Ti voglio bene. -

- Grazie mamma, anche io ti voglio bene. - riagganciai la chiamata e rimasi un po' a fissare lo schermo. Poi mi alzai e uscii dalla stanza. Andai in cucina, dove Lucia stava preparando la colazione. O meglio, stava sistemando quattro tazze da latte su dei tovagliolini aperti e aveva tirato fuori diversi pacchi di biscotti.

- Buongiorno, Audrey. - mi salutò con voce melensa. - Cosa vuoi per colazione? -

Guardai tutto quel cibo sul tavolo. Non avevo molta fame. - Hai del succo? -

- Ma certo! - corse dietro il bancone della cucina e aprì il frigo. - Vediamo un po'... Mela, pera, ananas, arancia, ACE... -

- Va bene l'ananas, grazie. -

- E da mangiare? -

Ci pensai un po' su. In realtà avevo fame, ma non conoscevo praticamente niente delle cose che aveva sparso sul tavolo. In realtà la colazione americana era molto diversa da quella italiana: salsicce, bacon, uova e burro serviti su un tappeto di toast croccanti. Guardai Lucia a disagio. - Mangerò una merendina. -

Lei annuì e mi passò le merendine, fissandomi finché non ne scelsi una. Alla fine, soddisfatta, si avvicinò al lavandino e iniziò a sistemare i piatti nella lavastoviglie.

- Come hai dormito? - mi chiese a un tratto.

- Uhm... abbastanza bene. Insomma, il letto è un po' scomodo... -

- Oh, ci farai l'abitudine. -

- Già... - come del resto avrei fatto l'abitudine di convivere con lei per due settimane. Ingoiai l'amarezza di quel pensiero insieme a un boccone di merendina e bevvi il mio succo.

- Cerchi tuo padre? - chiese guardando nella mia direzione. Continuò senza lasciarmi il tempo di rispondere che effettivamente non mi importava dove fosse. - È al lavoro e tornerà per l'ora di cena. Oh, verranno anche un collega di tuo padre con il figlio e la moglie. -

Annuii, niente affatto contenta di dovermi fermare a cena con loro quella sera.

- Resti per pranzo? -

- Penso che farò un giro qui intorno. Mangerò qualcosa lungo la strada. -

Lei fece spallucce e ricominciò a sistemare la cucina. Mi alzai lentamente, mettendo la mia tazza nella lavastoviglie. Mi lavai i denti, presi le chiavi di casa e feci per uscire, quando intravidi la testa del bambino sporgere dalla sua cameretta.

- Dove stai andando? - mi chiese curioso.

- A fare un giro. - risposi evasivamente. Non avevo voglia di rimanere in casa, né tantomeno di andare in giro per Roma per poi tornare un paio d'ore dopo. Presi la mia borsa con le chiavi e uscii di casa dopo aver salutato il piccoletto, scesi i cinque piani che mi separavano dalla strada e feci il giro del quartiere. Tutte le case lì erano pressoché uguali: decine di palazzi alti cinque piani si affacciavano sulla stessa strada ed erano riconoscibili sono dal numero civico attaccato al muretto dell'abitazione o da qualche balcone arredato con piante o piccoli mobili d'arredo.

Alla fine della strada, a circa cinque minuti a piedi da casa di mio padre, c'era un piccolo parco pubblico. A quell'ora era quasi vuoto, fatta eccezione per una donna che portava il figlio nel passeggino, fermandosi ogni tanto per controllare che il bambino si fosse addormentato; lui, invece, ogni volta che vedeva la madre, emetteva suoni concitati e allungava le braccia nella direzione della donna, che tornava a spingere il passeggino con aria stanca.
Mi sedetti su una panchina all'ombra, tirai fuori gli auricolari e ascoltai tutta una playlist degli ACDC fino a che le mie orecchie si rifiutarono di sentirne ancora.

Rimasi così per un po', perdendo la cognizione del tempo. Roma come città dei negozi mi piaceva, ma anche quell'aspetto decisamente poco da megalopoli mi intrigava molto.

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