Capitolo 43

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– Ciao, Audrey. Sei già arrivata? Mi dispiace non poter essere lì, ma vedi... ci sono stati un po' di... problemi e... –

Tirai un pugno al muro accanto a me, sentendo una fitta di dolore percorrermi tutto il braccio. Imprecai contro amici, fidanzate gelose e anche contro me stesso.

Realizzai che l'aver provato una conversazione del genere davanti allo specchio una decina di volte non mi aveva affatto aiutato. Potevo comprendere il punto di vista di Alice, ma Audrey non meritava di essere trattata in quel modo.

Fissai il telefono. Alla fine lo presi e digitai un messaggio veloce. Lo spedii e mi diedi dello stupido subito dopo: lei mi avrebbe odiato non appena lo avesse letto. Ma non potevo fare altrimenti.

La sera mi vestii, presi le chiavi della macchina di Raf e mi fiondai in strada, cercando di svuotare la mente.

Un'ora dopo scesi dalla macchina, le gambe doloranti e una fastidiosa sensazione alla bocca dello stomaco. Continuavo a ripetere a me stesso che era la scelta migliore, ma l'affermazione non si rivelò d'aiuto neanche una volta.

Mi avviai verso l'entrata dell'aeroporto di Fiumicino, gettando occhiate intorno a me per accertarmi che Audrey non fosse ancora arrivata. Feci appena in tempo ad assicurarmi un posto in prima fila nella sala d'aspetto, quando Audrey entrò nella mia visuale, trascinandosi dietro una pesante ed enorme valigia e un trolley.

Mi cercò con lo sguardo e, quando mi trovò, i suoi occhi si illuminarono. Venne verso di me e, a pochi passi da dove ero io, lasciò le valigie e mi abbracciò.

Rimasi per un attimo interdetto, non sapendo bene come comportarmi. Pensai che, se Alice mi avesse visto in quel momento, si sarebbe arrabbiata parecchio. Ma ora Alice non era lì a dirmi cosa fare. Audrey si staccò e sembrò ricordarsi solo allora di aver lasciato le valigie dietro di lei.

– La mia roba! – urlò, girandosi verso i bagagli. – Ho lasciato la mia roba in mezzo! –

Scoppiai a ridere. – Esattamente come avevi fatto la prima volta che eri atterrata qui. –

Sorrise al ricordo. – Per fortuna mi hai aiutata tu. –

Il silenzio calò tra di noi, mentre tutto intorno decine di persone si abbracciavano a vicenda con un enorme sorriso stampato in faccia. Il momento di imbarazzo non durò a lungo: vidi con la coda dell'occhio qualcuno poggiare due enormi valigie accanto a noi, sbuffare per la fatica e fissarmi con un sopracciglio alzato.

– Tu devi essere Marcel. – disse lui con uno spiccato accento texano.

– Tecnicamente è Marshall. – lo corressi io. – Tu sei... insomma... –

– Taylor. – si presentò lui, muovendo una mano davanti a sé con fare annoiato. – Per gli amici Tay, ma tu non rientri in questa categoria. –

Lo fissai per un momento e poi lo squadrai da capo a piedi: indossava un paio di stivali lunghi fino al ginocchio, jeans rossi troppo attillati, una camicia bianca con le maniche tirate su fino ai gomiti, un gilet nero e un foulard rosso e nero legato stretto al collo.

Lo fissai. Lui mi fissò. Inclinò la testa e si rivolse ad Audrey. – Che strane amicizie trovi in giro per il mondo, tesoro. –

– Non è strano. – mi difese Audrey con un sorriso.

– Sì che lo è. – ribadì Taylor, posandosi una mano sul bacino e parlando come se non fossi presente. – Hai visto come si veste? Insomma, quei pantaloni stracciati farebbero ribrezzo anche al barbone che abita sotto il ponte della quattordicesima strada! –

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