Frequentavo il gruppo di riabilitazione solo per fare un piacere a mia madre: quando parlava di me con le sue amiche, era evidente che non era contenta della sua ultima figlia.
– Troppi dispiaceri. – Le disse una volta la signora Rotterman durante una serata di poker. – Dovresti chiuderla in un collegio. –
Ed era più o meno quello che aveva fatto mia madre: andare lì tre volte a settimana era come chiudersi le mani nello sportello della macchina finché qualcuno non mi avesse fatto smettere. Eppure non arrivava mai nessuno a salvarmi.
Un giorno, durante uno di quegli orrendi incontri, si presentò un tipo piuttosto particolare; aveva un accento strano, sembrava texano, e indossava abiti singolari: una giacca viola con un lampo appuntato da un lato, da cui si intravedeva una camicia chiara, e un paio di pantaloni sgargianti. Sembrava un mandriano caduto in un sacco pieno di lustrini.
Non feci molto caso al nuovo arrivato, finché il signor Holliday non lo fece presentare.
– Mi chiamo Taylor Manfredi e... – iniziò lui.
– Non così! – urlò il signor Holliday. – Troppo formale! –
– Oh... Okay. – Rispose il ragazzo. Pensò un momento a cosa dire, poi mostrò l'espressione più annoiata del suo repertorio e ricominciò. – Ciao, sono Taylor, ho diciassette anni e, come dicono i miei, sono affetto dalla sindrome dell'identità dormiente. –
Nella sala calò il silenzio assoluto e anche io prestai ascolto. Sindrome dell'identità dormiente? Che razza di problema era?
– Vedo dalle vostre facce che non siete aggiornati sulle nuove malattie che si propagano ai nostri giorni. – Continuò lui, portandosi alla fronte una mano con fare teatrale. – La mia sindrome di basa su una scelta radicalmente differente circa l'orientamento che ognuno di noi, secondo la società moderna, dovrebbe seguire. –
Dato che nessuno di noi sembrava in grado di tradurre, Taylor, spazientito, si spiegò meglio. – Sono gay. –
A quella rivelazioni alcuni sussurrarono un Oh... Io pensai invece che fosse un atto di puro coraggio dichiarare il proprio orientamento sessuale così esplicitamente in una realtà in cui il diverso non è sempre ben accetto. L'Ohio non era l'unico posto in cui era mal visto tutto ciò che potesse lontanamente andare contro corrente.
Dopo questa "sconcertante rivelazione", il signor Holliday concentrò l'attenzione su un dipendente dal poker che, a detta sua, non toccava fiches da ben otto ore. Sicuramente un ottimo record...
Quel pomeriggio trascorse lento come gli altri, eppure, usciti da lì, il mio istinto mi spinse ad andare a parlare con il nuovo arrivato.
– Sei Taylor? – gli chiesi, bloccandogli la strada.
Lui mi squadrò da capo a piedi. – Gioia, dovresti proprio mettere un po' di fondotinta: hai due occhiaie che non farebbero invidia neanche a mia nonna. –
Incassai il colpo, anche se rimasi stupita dalla sua risposta. – Io sono Audrey. Audrey Whitney Fennington. –
– So chi sei. – Asserì lui in tono perentorio. – Mi sono trasferito nella villa vicino alla tua la scorsa settimana e mia madre non fa altro che parlare di te. –
– Oh. – Risposi semplicemente. Mi ero talmente chiusa in me stessa che non sapevo neanche che una nuova famiglia avesse preso il posto di Marshall. Tutto a un tratto la voglia di conoscere meglio quel ragazzo svanì così come era arrivata.
Mi voltai per andarmene, ma lui mi trattenne. – Prometto di non essere più così scontroso se tu mi prometti che metterai un po' di fondotinta. –
Era strano, ma quella promessa mi sembrò nascondere qualcosa di più profondo. Tutto di quel ragazzo dimostrava sicurezza e testardaggine, aspetti che avevo imparato ad apprezzare con il tempo.
Sorrisi mestamente. – Sono anni che non mi trucco. Anzi, credo di non essermi mai truccata veramente. –
Taylor alzò gli occhi al cielo, fingendo esasperazione. – Altro che un velo di fondotinta, qui ti ci vuole un restyling completo! Dovrò passare da te per qualche lezione di glamour. –
– Lo faresti davvero? – chiesi. Non mi era mai capitato che un perfetto sconosciuto si offrisse volontario di riportarmi nel mondo dei vivi. Forse non era un ragazzo normale, ma una sorta di kamikaze amante della sfide impossibili.
– Lo giuro sulla mia collezione di scarpe firmate. – Sembrava serissimo e, senza volerlo, scoppiai a ridere. Non ridevo così da anni, forse da una vita.
Da quel giorno io e Taylor iniziammo a trascorrere interi pomeriggi insieme: lui mi insegnava la sottile arte di pettinare e truccare una bambola, perché, testuali parole, "Tesoro, ti voglio bene ma non mi farei mai toccare i capelli da te neanche per tutti i lustrini di questo mondo". Io intanto mi limitavo a imparare da lui, a essere contagiata dal suo buonumore e dalla sua voglia di vivere.
Nel giro di due mesi il nostro rapporto ci aveva portato a convincere le famiglie a farci abbandonare il gruppo di riabilitazione e dopo altri quattro mesi mi ero ormai trasformata in una nuova Audrey: ridevo spesso, avevo amici a scuola, mi truccavo, avevo imparato a camminare sui tacchi (più o meno) e soprattutto avevo dimenticato quel brutto periodo che avevo vissuto prima di conoscere Taylor.
Grazie a lui ero uscita dal guscio e, come mi diceva sempre il mio nuovo migliore amico, ero pronta per spiccare il volo e vivere nuove avventure.
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Just friends
Teen FictionAudrey è una ragazza con un passato difficile: da piccola è stata abbandonata da suo padre e dal suo migliore amico, situazione che l'ha costretta a costruire intorno a sé un muro di sfiducia e incertezza e che pian piano l'ha spinta nel baratro del...