Capitolo 35

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Il giorno seguente fu davvero penoso: era il mio ultimo giorno a Roma e Lucia mi venne a svegliare tirando su le serrande e facendo entrare tutto il sole nella mia stanza. Sentii gli occhi bruciare al contatto con la luce. Mugugnai e lei mi salutò con un sorriso.

– Hai fatto tardi, ieri? – mi chiese con tono vago.

La fissai con un occhio chiuso. La testa mi pulsava e non ero certa di aver capito bene tutte le parole. – Forse. –

Lucia sorrise. – Com'è bella la gioventù! – Il suo tono di voce così alto e melenso mi causò una fitta alla testa. Chiusi gli occhi per contrastare il rumore incessante di tamburi che non ne voleva sapere di lasciarmi in pace.

Lucia sembrò cogliere i miei movimenti. – Mal di testa, tesoro? Posso darti il rimedio che... –

– No. – la bloccai. Per carità, non avrei mai ingerito neanche una goccia di quell'intruglio. Era già tanto se non avevo rimesso tutto l'alcool della sera precedente. Mi passò un'aspirina e un bicchiere d'acqua. Mandai giù tutto d'un sorso e sperai che facesse presto effetto.

– Allora... – indagò ancora lei. – Cosa è successo ieri? –

Scossi la testa. Non avevo voglia di parlare di una serata che... francamente non ricordavo. Fissai il vuoto: avevo rimosso ogni cosa della serata precedente. Non ricordavo nulla. Cercai di spremere le meningi, ma il dolore alla testa rendeva tutto troppo difficile. Alla fine rinunciai e borbottai che sarei tornata in camera a fare le valigie.

– Ma è ora di pranzo! – urlò lei dalla cucina.

La ignorai, lasciando in un angolo remoto della mia mente anche la brutta sensazione che mi attanagliava lo stomaco. E se la sera precedente avessi combinato qualcosa di grosso?

Mi chiusi in camera, tirai fuori la valigia da sotto il letto e iniziai a gettarci dentro vestiti alla rinfusa, senza fare attenzione a piegarli o sistemarli. Quando fu il momento di riempire il trolley, mi girai verso la piccola scrivania bianca per prendere altri panni che avevo adagiato sulla sedia: notai solo in quel momento un palloncino a elio a forma di unicorno. Era rosa.

Aggrottai le sopracciglia e, con uno sforzo disumano, mi trascinai in corridoio. Per fortuna non dovetti attendere molto: Filippo si materializzò davanti a me e mi salutò con un sorriso.

Ricambiai, poi andai dritta al sodo. – È tuo il palloncino in camera mia? –

Il bambino sbatté le palpebre, confuso. – Palloncino? –

Annuii e lo invitai a entrare nella mia camera. Filippo restò momento sulla soglia della porta dopo aver visto tutte le mie valigie pronte per essere riempite, ma alla fine mi seguì. – Eccolo qui. –

Gli mostrai il palloncino, ma lui scrollò le spalle. – Non è mio. Perché mai dovrei avere un palloncino rosa a forma di unicorno? –

E perché avrei dovuto averlo io, allora? Mi sedetti sul bordo del letto, cercando di ricordare. Niente, quel palloncino non mi ricordava niente. Feci per slegarlo e buttarlo, ma alla fine, toccandolo, ebbi come un flashback.

– Unique! – urlai. Il bambino vicino a me saltò per lo spavento. Lo ignorai e cercai di ricordare altro, ma la testa era talmente pesante che non mi lasciò spazio per vedere il resto, o perlomeno i punti salienti della serata che mi avevano spinto a comprare un palloncino del genere.

Alla fine rinunciai, portandomi due dita alle tempie. Filippo notò il mio gesto disperato. – Comunque, il tuo dopo sbornia è il migliore che abbia mai visto. –

Fissai quel bambino per un po'. – Prego? –

Lui si guardò le mani, farfugliando qualche parola. – È solo che... mia madre, quando torna dalle feste... lei non è così attiva come te. Dorme tutto il giorno e... Scusa. –

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