Capitolo 3

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Fa freddo, ma non è il momento esatto per pensare a questo. Quando mia madre mi ha detto che avrei dovuto lavorare, ho preso la questione sul serio. Non ho perso tempo e non voglio perderne altro. Dei soldi in più, oltre quelli che conservo da più di tre anni, non sono mai male. Non ho ancora grandi progetti per il futuro, non mi piace pensare ad una vita lontana da quelle quattro mure ed è strano conoscendomi. Alzo gli occhi al cielo arrendendomi all'idea di avere un aspetto presentabile per il proprietario di questo locale. Corro per qualche metro, tenendo ben stretto il mio cappellino che solo in questo mese ho rischiato di perdere tre volte a causa del vento.

"Cavolo", borbotto, facendo una smorfia quando colpisco in pieno una pozzanghera. Sembra non essere affatto il mio giorno fortunato questo, ma devo provarci. Ormai sono qui.

Spingere, dice la porta. Ho sempre avuto un problema con queste. Mia madre dice spesso che vivo in un mondo tutto mio e questo fa si, fra le tante cose, che io decida di tirarla verso di me quella porta, nonostante abbia appena letto di fare il contrario. Sbuffo, cacciando una ciocca di capelli dietro il mio orecchio. Tolgo il cappello, consapevole che la situazione al di sotto di questo non sia delle migliori ed evito categoricamente di guardarmi al primo specchio che intralcia il mio cammino.

Il posto è....scuro, soffuso direi. Le luci sono basse e sulle tonalità del rosso. Mi addentro in quello che ha tutto l'aspetto di qualcosa di ben lontano da un bar in cui si beve solo caffè, ma scelgo di non fermarmi alle apparenze. Tutti lo hanno fatto con me e quasi per compassione, decido di dare un'opportunità a questo posto, a Sophia. Vedere il mio nome lampeggiare a caratteri cubitali al fianco di una donnina mezza nuda, che imita, in modo abbastanza imbarazzante Marilyn Monroe è inquietante, e mentre sto per farmi un'idea del posto in cui mi trovo, una voce stridula giunge fin troppo forte ai miei timpani.

"Siamo ancora chiusi", mi giro di scatto quasi saltando sul posto. Non me lo aspettavo e mi aspettavo ancora meno tutto quel nero, rosso e viola messo assieme.

"Oh, scusami io...", non balbetto, almeno non con qualcuno che non si chiami Alexander. "Sono qui per il lavoro...da barista", chiarisco, anche se dentro me ho già scelto di darmela a gambe.

"Oh", la sua bocca si spalanca in sorpresa, poi sorride. Non sembra mi stia prendendo in giro per la differenza di stili. Io faccio schifo, lei no. Mi passo una mano fra i capelli, sperando di domare la situazione che si sarà venuta a creare sulla mia testa.

"Se è ancora disponibile", aggiungo, dato che questa strana ragazza si è come bloccata.

"In realtà lo è", gesticola animatamente. "Ma non sono io che mi occupo di queste cose".

"Certo", annuisco. "Posso parlare con...non so, il tuo capo?".

"Lui ora non c'è", sorride ancora. Sorride troppo, io troppo poco. "Ma puoi tornare domani, se ti va", aggiunge gettando uno sguardo all'ambiente circostante, come a farmi capire: renditi conto di quello che ti aspetta.

"Va bene", accenno un sorriso. "Posso farti una domanda?". Probabilmente le sembrerò ancor più stupida.

"Certo che puoi", cinguetta giocherellando con degli enormi orecchini a cerchi con le dita.

"Questo è...".

"Uno strip club", conclude al mio posto. "Ma non è come sembra, non è come gli altri".

"Non sono molto informata", ammetto prendendo posto su uno sgabello lungo il bancone pieno di alcolici.

"Non siamo puttane". Esordisce, facendomi strozzare con la saliva. "Balliamo e restiamo in costume, non succede altro...niente droga, niente sesso...è un posto abbastanza altolocato questo. I nostri clienti non sono ubriaconi o barboni, ma quelli con i soldi", precisa quasi orgogliosa.

La cura [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora